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La storia / Perse la vista dall’occhio sinistro per l’esplosione di un ponte quando era neonata

«Fu mia nonna a estrarmi il frammento più grande. Con i tedeschi ovunque, recarsi all’ospedale era impossibile»

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LA STORIA È il 16 marzo 1945 e alla Liberazione manca poco più di un mese. Si è ormai certi che l’esito della guerra volgerà dal lato di chi combatte per garantire un futuro migliore dopo vent’anni di fascismo e uno e mezzo di guerra civile. Il momento tanto atteso, però, tarda ancora ad arrivare e gli scontri continuano, molte volte con esiti cruenti.

Quel giorno, la distruzione di un’infrastruttura che nel contesto più ampio del conflitto, resterebbe marginale, fa temere il peggio per una neonata, Teresa Dughera.

Nata il 4 dicembre 1944, abita in una casa di località Manzoni, a San Rocco Seno d’Elvio, dove i familiari sono mezzadri.

Oggi è lei a ripercorrere, attraverso quanto le raccontava la nonna Secondina Florio, quanto accaduto: «I tedeschi fecero saltare in aria il ponte sul torrente. Non so il motivo e, sinceramente, credo che pure dal punto di vista strategico avesse poco senso, la strada si interrompe dopo tre chilometri. In ogni caso, dopo esserci svegliate, mia mamma, come sempre, mi portò al piano terra, in cucina, sotto la finestra vicino alla stufa. Il ponte dista qualche centinaio di metri: insieme al fragore, lo scoppio provocò forti onde d’urto che fecero andare in frantumi i vetri delle case dei dintorni. Compresa la nostra».

La situazione appare subito grave: le schegge finiscono addosso a Teresa e, alcune, si conficcano nell’occhio sinistro. «A estrarmi il frammento più grosso fu mia nonna. Recarsi all’ospedale, con i tedeschi dappertutto, era impossibile. Per fortuna, tre giorni dopo mi portarono da un oculista in località Boffa. Lavorava alle Molinette e, per recarsi a Torino, usava la bicicletta. Mi estrasse i pezzi più piccoli e, nel proferire la diagnosi, fu chiaro: disse che quell’occhio si sarebbe salvato, ma avrei perso la vista».

Avendo poco più di tre mesi, «è come se, da quella parte, fossi sempre stata cieca. Per alcuni anni si ulcerava e dovevo aspettare guarisse, poi non è mai più accaduto nulla. Ho sempre condotto una vita normale. Mi accorgo di non vederci da quella parte solo quando, guidando, devo passare da una rotonda: preferivo quando non esistevano».

Teresa detiene probabilmente un primato: è forse la persona più giovane a ricevere la pensione di guerra per invalidità civile. «La ritiro alla Posta e, quando c’è un nuovo impiegato, mi osserva sempre in modo stupito», ride, «mi fu concessa dal Tribunale militare di Torino in via provvisoria quando avevo sei anni. Dal- l’anno successivo, è diventata definitiva». Il documento originale, oltre ad accertare che, all’epoca della visita, dal- l’occhio destro aveva dieci decimi, specifica che la condizione era stata «riportata-contratta a causa di guerra per scoppio di ordigno bellico».

Dopo aver frequentato l’avviamento «ho sempre potuto lavorare, ogni venti dipendenti c’era l’obbligo di assumere un invalido, ma penso di essere l’unica a non essere riuscita ad avere un posto pubblico. Ho lavorato otto anni alla Coldiretti ad Alba, poi tre a Cuneo alla mutua dei coltivatori. Dopo il matrimonio mi sono trasferita a Bruino e, per un po’ sono stata in Fiat, ma era un incubo. Così, fino alla pensione lavorativa, ho preso in gestione una cartoleria. In seguito, fino ai settant’anni circa ho aiutato nella mensa dell’asilo. Tra l’altro, mio figlio del 1973, ha studiato proprio all’alberghiero».

Anni dopo, i genitori Eugenio e Carolina comprarono una casa poco distante, in località Madonna degli angeli. «L’abbiamo venduta anni fa. Ad Alba abitano ancora le mie sorelle, Marisa e Luigina».

 Davide Barile

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