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Festival di Venezia / «Artisti e operatori culturali non possono restare in silenzio sul genocidio a Gaza»

Festival di Venezia / «Artisti e operatori culturali non possono restare in silenzio sul genocidio a Gaza»

Walter Colombo, inviato a Venezia

MOSTRA DEL CINEMA – Sbarca al Lido uno dei film più attesi e intensi della rassegna, perché porta la voce di una piccola innocente uccisa da uno Stato da mesi sta attuando un terribile genocidio e arriva con la sua regista tunisina Kaouther ben Hania che presenta la pellicola in concorso The voice of Hind Rajab.

«Come artisti e operatori culturali, non possiamo restare in silenzio mentre un genocidio è in corso a Gaza». Con queste parole, si erano schierati lo scorso maggio tanti nomi anche del cinema nella petizione Artisti per Fatem, dedicata alla fotoreporter palestinese Fatima Hassouna, uccisa dall’esercito israeliano poco prima di poter partecipare al Festival di Cannes. Tra le firme di quell’appello c’era anche quella di Kaouther ben Hania che nel suo film racconta proprio le atrocità portate avanti dal governo di Benjamin Netanyahu a Gaza, attraverso un altro episodio: l’uccisione, da parte delle forze israeliane, della bambina palestinese di cinque anni che dà il titolo alla pellicola. Con lei, vengono assassinati sei suoi familiari e due paramedici intervenuti nel tentativo di salvarla.

Nel film si sente la registrazione della vera telefonata in cui Hind chiedeva aiuto ai soccorritori della Mezza luna rossa Palestinese il 29 gennaio 2024. Se però questo lungometraggio è già uno dei più attesi e significativi della Mostra non è solo per il suo valore politico e umano, ma anche per il talento di narratrice dimostrato da Kaouther ben Hania, già regista di lavori come L’uomo che vendette la sua pelle (2020), primo titolo della Tunisia a correre per l’Oscar al miglior film internazionale (nonché premiato a Venezia Orizzonti), e il successivo Quattro figlie (2024), candidato dall’Academy come miglior documentario.

Per la ricostruzione della tragedia di Hind Rajab, la cineasta ha ambientato tutto in un’unica location, completando il suo lavoro in soli dodici mesi. E vuole raccontare al pubblico com’è iniziato il tutto: «Ero nel bel mezzo della campagna per gli Oscar di Les filles d’Olfa e mi preparavo mentalmente a entrare finalmente in pre-produzione per un film che avevo passato dieci anni a scrivere. Poi, durante uno scalo all’aeroporto di Los Angeles, tutto è cambiato. Ho sentito una registrazione audio di Hind Rajab che implorava aiuto. A quel punto la sua voce si era già diffusa su Internet. Ho subito provato un misto di impotenza e di sconvolgente tristezza. Una reazione fisica, come se la terra mi fosse mancata sotto i piedi. Non potevo continuare come previsto. Ho contattato la Mezzaluna rossa e ho chiesto loro l’audio completo. Dopo averlo ascoltato, ho capito che non c’erano più dubbi e che dovevo lasciar perdere qualunque altra cosa. Dovevo fare questo film. Ho parlato a lungo con la madre di Hind, con le persone reali che erano dall’altra parte di quella chiamata, quelle che hanno cercato di aiutarla. Ho ascoltato, ho pianto, ho scritto. Poi ho tessuto una storia attorno alle loro testimonianze, usando la vera registrazione audio della voce di Hind e costruendo un film ambientato in un’unica location, in cui la violenza rimane fuori campo. È stata una scelta deliberata. Perché le immagini violente sono ovunque sui nostri schermi, sulle nostre timeline, sui nostri telefoni. Volevo concentrarmi sull’invisibile: l’attesa, la paura, il suono insopportabile del silenzio quando l’aiuto non arriva. A volte ciò che non vedi è più devastante di ciò che vedi. Al centro di questo film c’è qualcosa di molto semplice, e molto difficile da affrontare. Non posso accettare un mondo in cui un bambino chiede aiuto e nessuno arriva. Quel dolore, quel fallimento, appartengono a tutti noi. Questa storia non riguarda solo Gaza. Parla di un dolore universale. E credo che l’invenzione narrativa soprattutto quando trae spunto da eventi verificati, dolorosi e reali sia lo strumento più potente del cinema. Più potente del rumore delle ultime notizie o dell’indifferenza dello scrolling. Il cinema può preservare un ricordo. Il cinema può resistere all’amnesia. Che la voce di Hind Rajab possa essere ascoltata».

In sala tutti l’hanno ascoltata, toccati dall’assurdità del male, moltissimi i volti segnati dalle lacrime, più di quindici minuti di applausi, un film denso, profondo e con un messaggio chiaro: tutto questo deve finire. Il tempo delle denunce è finito, adesso bisogna passare all’azione, scuotere le coscienze delle persone affinché i responsabili delle Nazioni apparentemente dormienti, disinteressati o forse collusi col governo Israeliano trovino quanto prima una soluzione che possa ridare dignità e pace al popolo Palestinese che per quarant’anni ha vissuto in uno stato di oppressione da parte del governo israeliano e oggi sta vivendo uno dei più atroci genocidi del nuovo millennio nel silenzio e apparente impotenza del mondo.

In concorso: Duse di Pietro Marcello

Pietro Marcello porta alla Mostra Duse, film in concorso che vede nei panni di Eleonora Duse la diva del cinema Valeria Bruna Tedeschi, una delle interpreti più acclamate e premiate del panorama italiano. Eleonora Duse ha una leggendaria carriera alle spalle che sembra ormai conclusa, ma, nei tempi feroci tra la Grande guerra e l’ascesa del fascismo, la Divina sente un richiamo più forte di ogni rassegnazione e torna sul palcoscenico dove la sua vita è iniziata.

Foto film Duse

Non è solo il desiderio di recitare a muoverla, ma la necessità di riaffermare sé stessa in un mondo che cambia inesorabilmente e che minaccia di toglierle tutto, persino l’indipendenza che ha conquistato con il lavoro di tutta una vita. Inaspettati rovesci finanziari la mettono di fronte a una scelta e così, ancora una volta, Eleonora sceglie il teatro come unico spazio di verità e di resistenza.

Con la sua arte come unica arma, sfida il tempo e il disincanto, trasformando ogni parola e ogni gesto in un atto rivoluzionario. Ma il prezzo della bellezza contro la brutalità del potere e della storia è alto, infatti gli affetti sembrano dissolversi e la sua salute si aggrava. Eppure, Eleonora affronterà l’ultimo viaggio dimostrando che si può rinunciare alla vita stessa, ma mai alla propria natura. Per il regista, Eleonora Duse colpisce per le contraddizioni che caratterizzano la sua l’esistenza. Dietro i grandi successi della Divina si nascondevano fallimenti altrettanto sensazionali, che sono una delle chiavi di lettura più interessanti. Per questo la scelta di concentrarsi sugli ultimi anni della sua vita è venuta naturalmente.

«Duse affronta il suo bilancio finale con il suo talento, con il proprio corpo, con la maternità, con D’Annunzio, con la storia d’Italia. Non volevo realizzare un biopic, ma raccontare l’anima di una donna, un’artista, in un’epoca di grandi sconvolgimenti storici, con la possibilità di indagare temi a me cari: da una parte il ruolo dell’artista di fronte a tragedie come la guerra, la povertà e il dolore; dall’altra, le possibili declinazioni del rapporto tra arte e potere», dichiara Marcello.

Ci si aspettava una grande interpretazione, piena di fremiti, risate e terrori come tutte quelle che hanno reso straordinaria la carriera di Bruni Tedeschi, cresciuta in Francia, capace di vivere da artista completa e indomita tra due mondi e culture, emotiva e terrena, cesellatrice di parole, sentimenti, follia, emozioni. L’interpretazione nel film di Pietro Marcello è forse la sua sfida più grande, perché la Duse era l’interprete che sapeva morire in scena semplicemente lasciando vibrare le dita di una mano, un gesto quasi impalpabile eppure potente, come ricordano testimoni e biografi. Una sfida e una lezione di recitazione incrociata e all’ultimo sospiro che non ha convinto tutti, un’attrice protagonista sottotono e una struttura narrativa semplice, nella quale la recitazione degli altri attori in alcuni momenti sembrava essere forzata e innaturale. Forse era quello che voleva comunicare il regista? Il film sarà disponibile nelle sale dal 18 settembre.

L’attesa della critica per Nühai  di Shu Qi

La regista taiwanese Shu Qi presenta il suo film in concorso Nühai (Ragazza), la storia di una ragazzina che trova conforto nell’amicizia con un’altra bambina con un nome simile, che incarna i sogni che lei ha represso. Le sue aspirazioni, però, sono messe alla prova dal passato della madre, che riflette le sue stesse difficoltà e la intrappola in un circolo vizioso di disperazione.

«Faccio l’attrice da quasi trent’anni. Raccontare storie è sempre stata una mia passione. In diverse occasioni ho anche avuto il privilegio di far parte di giurie di festival cinematografici internazionali e il processo di valorizzazione di opere di qualità ha alimentato il mio desiderio creativo, spingendomi a scrivere la sceneggiatura di Nühai», commenta la regista.

Foto Film Nühai

Shu Qi, nata Lin Li-Hui a Xindian, Taiwan, nel 1976, ha iniziato la sua carriera nel mondo dello spettacolo come modella e attrice in film di genere. La sua ascesa nel cinema inizia negli anni ’90, quando conquista il pubblico asiatico con il film Viva Erotica (1996), una commedia erotica drammatica che le vale il premio come miglior attrice non protagonista agli Hong Kong Film Awards. Nonostante i suoi inizi controversi, Shu Qi ha dimostrato rapidamente una versatilità sorprendente, collaborando con alcuni dei più importanti registi asiatici e diventando un volto familiare anche nel panorama cinematografico occidentale.

Per Shu Qi il debutto come regista a Venezia atteso con grande interesse dalla critica, segna un passaggio significativo nella sua carriera da attrice affermata a regista di talento. È un film artistico e drammatico, una storia intima e potente sulla condizione femminile nella società moderna, con uno sguardo delicato ma incisivo sui temi dell’identità, della crescita e della libertà personale, coinvolgendo positivamente gli spettatori in sala.

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