di Lidia e Battista Galvagno
PENSIERO PER DOMENICA – XXX TEMPO ORDINARIO – 26 OTTOBRE
Anche in questa domenica la preghiera è chiaramente il tema di fondo delle tre letture bibliche della Messa. Gesù ha pregato tanto e ha insegnato ai suoi come pregare. Nel Vangelo di oggi, una pagina esclusiva di Luca (18,9-14) ci presenta come modelli di preghiera due personaggi appartenenti a due gruppi antitetici: i farisei amatissimi dal popolo a cui offrivano il loro insegnamento; e i pubblicani odiati perché riscuotevano le tasse per i romani. Nella prima lettura, il Siracide (35,15-22) apre la riflessione con una considerazione di fondo: ha senso pregare se si crede in un Dio che ascolta.

Dio ascolta tutti: «Non fa preferenza di persone». Se sembra preferire il povero è solo perché ascolta con orecchio attento persone che in quel tempo – ma anche nel nostro! – normalmente non venivano ascoltate. Dio invece «non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso». Poi, con una straordinaria finezza spirituale, il Siracide aggiunge che c’è una preghiera ancora più efficace, che «arriva fino alle nubi», che arriva dritta al cuore di Dio: la preghiera di chi soccorre l’orfano e la vedova (i più poveri tra i poveri!) e intercede per loro. Più “potente” della preghiera del povero è quella di chi soccorre il povero.
La differenza tra la preghiera del fariseo e del pubblicano, un tema su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, non sta tanto nelle parole, ma nell’atteggiamento interiore. L’errore del fariseo non è il ringraziare Dio per la vita buona che è riuscito a condurre. Se nella vita riusciamo a fare del bene, è giusto e doveroso dire grazie a Dio! Nella preghiera del fariseo ci sono però due cose che danno fastidio e che tolgono qualità alla preghiera stessa: il giudizio sull’altro e l’autocompiacimento narcisistico. In poche parole, il fariseo crede in Dio, ma ama solo sé stesso! Si sente già giustificato: non ha più bisogno del perdono di Dio. Il pubblicano invece non ha nulla da vantare davanti a Dio: si affida alla sua misericordia. Ecco la vera umiltà.
La preghiera che ognuno spera di fare in punto di morte. La leggiamo nella II Lettera a Timoteo, una lettera scritta da un discepolo di Paolo. È bello pensare che l’abbia scritta il discepolo che l’ha accompagnato fino alla fine, magari che l’ha assistito fino all’esecuzione capitale. Le parole di Paolo sono il riflesso della sua vita, una sorta di testamento spirituale: «Ho combattuto la buona battaglia (in realtà tante “battaglie” in difesa della fede ndr), ho terminato la corsa, ho custodito la fede». Poter dire con verità queste parole, alla fine della vita è il sogno di ogni discepolo!
