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Ricordato il canonico Francesco Chiesa, grande teologo della diocesi

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Don Renato Gallo illustra la figura del canonico albese, il servo di Dio Francesco Chiesa

ALBA Martedì 8 giugno, nell’incontro di formazione del clero in cattedrale, don Renato Gallo ha illustrato la figura del canonico albese, il servo di Dio Francesco Chiesa. Riportiamo qui il testo completo della relazione. 

LA FIGURA DEL SERVO DI DIO, IL CANONICO FRANCESCO CHIESA ALLA LUCE DEL CAMBIAMENTO D’EPOCA CHE STIAMO VIVENDO.

Sono grato al vescovo che mi ha offerto l’occasione di parlare a tutto il presbiterio diocesano del servo di Dio, il canonico Francesco Chiesa, rivisitando la sua vita, la sua personalità, la sua figura di formatore di candidati al sacerdozio, come insegnante e poi come rettore del Seminario; il suo spendersi come parroco a servizio della parrocchia dei Santi Cosma e Damiano per ben 33 anni. Limiterò il mio discorso alla sua attività pastorale di parroco, cercando di rispondere a due semplici interrogativi, che ritengo possano destare interesse in quanto connessi a situazioni che si presentano anche oggi, eviterò quindi il più possibile il tono agiografico e celebrativo. Le domande sono queste: come ha potuto l’uomo di studio, l’uomo dei libri, il teologo, e filosofo Francesco Chiesa, essere anche per tanti anni l’uomo della gente, disponibile agli incontri con tutte le categorie di persone, come è richiesto a un parroco? La seconda domanda, anche questa portatrice di riflessioni attualizzanti, si può formulare in questi termini: quale è stato il ruolo tenuto dal canonico Chiesa nell’affrontare le problematiche del suo tempo, specialmente quelle ecclesiali e sociali, che correvano il rischio, tutt’altro che teorico, di creare fratture e divisioni all’interno del presbiterio e delle comunità religiose e civili del tempo?

Il canonico Chiesa fece ingresso nella parrocchia dei Santi Cosma e Damiano il 21 settembre del 1913, all’età di 39 anni. La sua nomina a parroco destò alquanto stupore e, a quanto pare, sorprese anche lui. Questo trapela nel discorso inaugurale alla comunità nel giorno dell’ingresso in parrocchia. Dice il canonico: «Io ho sempre ritenuto che l’ufficio di parroco fosse il più degno di stima, ma nel medesimo tempo, pensavo che non fosse per me. E così, chiuso tra le mura del Seminario, dividevo il mio tempo tra la cattedra, l’altare e il tavolino. Io non vedevo altro nel mio avvenire che libri da leggere e da studiare, alunni da istruire e una certa perfezione spirituale da conseguire. Però la stessa meditazione mi portava a pensare che lo studio, per quanto nobile, non è fine, ma soltanto mezzo. Vedendo gli altri occupati nell’apostolato diretto, pensavo: come sono felici coloro che sono chiamati a lavorare in parrocchia». 

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La chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano in via Maestra ad Alba

Di questa nomina a parroco, si sentirono commenti di questo genere: «È un uomo di libri, buono come professore, ma quanto a vita pratica…» Ci fu chi temette che la parrocchia di San Damiano si inaridisse, o almeno si annoiasse, guidata da un uomo che conosceva molto meglio le gerarchie degli angeli, che non la gestione economica di una parrocchia o di un beneficio parrocchiale. E invece il canonico Chiesa si rivelò il più aggiornato e il più pratico dei parroci!

In un capitolo della vita del canonico Chiesa da titolo Nova et vetera di monsignor A. Vigolungo, leggiamo: «Nessuno ricorderà il canonico Chiesa come costruttore: ma fu anche questo: con tempestività, larghezza di vedute e discrezione. Quel bel palazzo a quattro piani, prospiciente alla via maestra della città, lo aveva fatto costruire lui, appena entrato. Erano state abbattute certe stanzaccie, basse e oscure, ed era sorta a tempo di primato, sotto la direzione di un valente ingegnere, una costruzione che ancora oggi figura tra quelle di cui la via delle vetrine meglio si aggrazia». Suo padre lo aveva aiutato in parole e fatti: «Qui bisogna rifare tutto», aveva detto, «qui ci vuole una casa bella e grande, costi quel che costi; così tutti i parroci che verranno dopo di te, ti ricorderanno, e la parrocchia di san Damiano non sarà mai più senza parroco». Il pianterreno e il terzo piano furono affittati, e i due piani di mezzo formarono la casa parrocchiale.

Dopo la costruzione di questo palazzo (radicalmente restaurato e rinforzato dieci anni fa), seguiranno l’innalzamento del campanile, il restauro completo dell’interno della chiesa, al quale collaborò il più noto pittore del tempo il cavaliere Finati, la collocazione di un prestigioso organo. Intanto aveva provveduto a dare un nuovo alloggio al sagrestano, e a riadattare l’abitazione del mezzadro, sorretto sempre nella soluzione di questi problemi da un grande senso pratico e nel rapporto con i collaboratori, da un acuto senso di correttezza e di giustizia. Senza andare nei dettagli, ricordiamo ancora l’oratorio di via Giacosa. Fu l’ultimo nell’esecuzione, ma il primo nell’intenzione: fu inaugurato nel 1938, nel 25° anno del suo servizio di parroco. 

L’azione caritativa

Il canonico Chiesa fu capace di affrontare situazioni di emergenza, con spirito pratico e sempre sostenuto da squisita e generosa carità. Nei primi anni della sua attività di parroco, ebbe ad affrontare un problema che, in forme diverse si presenta anche oggi, ed è quello dell’accoglienza a persone in difficoltà. Dal fronte in fiamme della prima guerra mondiale, affluivano nelle retrovie feriti e malati, e con essi anche sacerdoti: cappellani militari e preti-soldato. Il canonico mise a loro disposizione la nuova casa parrocchiale, ancora fresca di intonaco; quel palazzo si trasformò in una specie di caserma, ma con scarsa disciplina. Ma – dice un biografo – lui sapeva che per il destino di quei giovani preti, valeva la pena lasciarsi disturbare, spendersi e spendere… Arrivarono poi ad Alba i prigionieri di guerra dell’esercito austro-ungarico. Quando arrivarono le tradotte alla stazione, andò ad attenderli, entrò in dialogo con loro, facendo uso del suo tedesco imparaticcio, mettendosi a loro disposizione per i problemi spirituali, assicurando loro per gli altri problemi l’accoglienza benevola delle famiglie albesi. Parte dei prigionieri fu accolta nell’ospedale, per ferite di guerra o per malattie contratte al fronte. Il canonico tenne alle infermiere alcune lezioni di tedesco, perché imparassero le frasi più comuni per farsi capire da quegli ammalati.

Ma arrivò in quella terribile carneficina, la disfatta di Caporetto: i profughi di quelle terre scapparono in ogni parte d’Italia. Pochi forse sanno che ad Alba ne arrivarono circa 350, tutti del Comune di Caltrano, in provincia di Vicenza, e fu ancora il canonico a coordinare la loro assistenza spirituale e materiale. Questo fu l’atteggiamento del canonico Chiesa, in situazioni di emergenza; mentre per gli anni normali, era quotidiana la processione dei poveri alla porta della canonica. Alcuni erano conosciuti e ricevevano l’aiuto giornaliero; altri erano «i furbi, trovatesi per caso in città senza soldi». Il canonico preferiva rischiare di essere ingannato, piuttosto di mancare di soccorrere un vero bisognoso. A quelli che gli chiedevano i soldi per prendere il treno, prese l’abitudine di farli accompagnare alla stazione… naturalmente se non se l’erano già svignata prima.

L’impegno nella catechesi

Tutti i biografi del servo di Dio sono concordi nel sottolineare quante energie egli abbia investito nel curare l’attività catechistica dei bambini e dei ragazzi, e assieme la formazione delle catechiste. Cito un’altra volta il libro di monsignor Vigolungo: «Nelle cose del catechismo, il canonico Chiesa fu quasi pignolo. Chi volesse sapere come si segnalano di volta in volta gli alti e bassi di una frequenza o di un profitto, come se ne cercano i sintomi, come se ne studiano i rimedi, come si sensibilizza attorno all’attività catechistica l’attenzione di tutti i parrocchiani, come si trae il massimo profitto e soddisfazioni dalle premiazioni, dalle feste di fine anno, e questo costantemente per 33 anni, dovrebbe soltanto avere la pazienza di consultare tutto il suo fitto diario parrocchiale.  Del gruppo delle catechiste il canonico dirà che era il gruppo che più gli stava a cuore. Nella parrocchia di San Damiano le catechiste erano una “istituzione”, non uno dei tanti gruppi. Esse dovevano essere esemplari in famiglia e le più esemplari in parrocchia, e in sovrappiù sentire il bisogno di versare sui più piccoli i loro tesori di fede e di grazia. A loro il parroco diceva sovente: “nessuno in famiglia o in parrocchia possa ragionevolmente lagnarsi di voi; siate le prime alle ore di adorazione e alle funzioni parrocchiali”».

Nel 1920, il vescovo monsignor Re lo nominò presidente della commissione catechistica diocesana: dopo questa nomina, alcuni sacerdoti suoi estimatori, lo indussero a pubblicare sul bollettino della diocesi gli schemi delle istruzioni che egli faceva alle catechiste. Gli effetti di quelle pubblicazioni furono superiori a tutte le aspettative. Infatti non solo molti parroci della diocesi decisero di servirsene, per formare anch’essi un gruppo di catechiste ben preparate, ma la maggior parte di essi vollero che lo stesso canonico andasse a formarle nelle loro parrocchie. Come rifiutare questo servizio all’invito dei suoi primi cari ex-vicecurati divenuti parroci, o di parroci suoi coetanei, per i quali nutriva profondi sentimenti di stima e di amicizia? Così andrà a svolgere le istruzioni per le catechiste nelle parrocchie di Canale, di Monforte, di Priocca, di Castiglione Tinella, di Grinzane, nella sua Montà e di altre ancora.

In questo modo esplicò il servizio di parroco, l’intellettuale, il professore, l’uomo dei libri, il teologo e il filosofo, il canonico Chiesa. Penso sia esatta l’affermazione del professor Lazzati, cioè che la pastorale non sorretta da una adeguata conoscenza di sé stessi, degli altri, della società e della storia diventa “pastorizia”. La pastorale del servo di Dio non corse mai questo rischio.

Come si atteggiò il canonico Chiesa nelle controversie ecclesiali del suo tempo

Sulla rivista Il cooperatore paolino, in un articolo di don Eliseo Sgarbossa, ho trovato il seguente giudizio: «Il servo di Dio fu esemplare nella sua posizione equilibrata sul problema del “modernismo”. Fu grazie a lui che in quegli anni di seminagioni e di temporali, la diocesi di Alba non si chiuse nel vecchio e nello stantìo, e fu anche grazie a lui che non cadde nel vano e nell’equivoco». Infatti egli seppe fare da ponte tra le sponde contrapposte dei novatori e dei tradizionalisti; come tale svolse una funzione insostituibile: occorreva ad Alba, in quel principio di secolo così turbolento – continua l’articolo – «un uomo che riunisse in sé una pietà limpida, una fede che conosce bene il suo oggetto, una profonda docilità allo Spirito, uno squisito senso della Chiesa».  C’erano in quegli anni nel Seminario di Alba un buon numero di chierici intelligenti, con tanta apertura mentale: sappiamo da alcuni di loro in vena di confidenze, che molte candele si consumarono negli scantinati del Seminario, per leggere alla loro fioca luce le pagine di Bonomelli, di Semeria, e forse anche qualche pagina del famigerato Loisy. Il teologo Chiesa, uomo sereno e maturo, sdrammatizzava l’atmosfera, ridonava pace agli spiriti inquieti. Si attirava l’ascendente sui chierici con il rigore delle sue lezioni, con l’aggiornamento sulle riviste più sicure e nello stesso tempo più avanzate. Riguardo ai giovani sacerdoti, simpatizzava con quelli che nell’umiltà, nello zelo e nel lavoro, amavano i libri e tentavano vie nuove. All’occorrenza seppe anche difenderli presso il vescovo dalle accuse dei soliti mediocri, dalla mente piccola e pigra.

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I primi ragazzi che seguirono don Alberione nel 1914

Lo stesso nascere della Famiglia paolina, assieme a molto entusiasmo, provocò in diocesi anche molti problemi e perplessità. Uscirono infatti dal Seminario un bel gruppo di chierici già vicini all’ordinazione, per avventurarsi su un percorso inedito e non privo di difficoltà e incertezze. Troviamo in questa circostanza, tutta la prudenza e nello stesso tempo, il coraggio del servo di Dio.

Scrive don Vigolungo: «Ci pare di trovare lo stile della sua prudenza in questa frase che egli disse al vescovo, monsignor Re, quando la Pia Società San Paolo era sul nascere, e umanamente non c’era proprio nulla di rassicurante, salvo il fondatore, che era figlio spirituale del canonico Chiesa: “Eccellenza, quest’opera avrà una storia: faccia in modo che una pagina di questa storia parli del suo favore e del suo appoggio”».

La sua capacità di mediare, di smussare preconcetti, di fugare false o pretestuose paure fu preziosissima. Si apprezzano maggiormente queste persone, quando in una diocesi, in un presbiterio, in una comunità religiosa, in circostanze analoghe, vengono a mancare. Allora certe contrapposizioni, certe lacerazioni restano aperte e doloranti per molto tempo, con danno di tutti.

Era più che logico che una personalità sacerdotale come quella del canonico Chiesa godesse la stima dei suoi superiori, e in particolare del suo vescovo. Infatti nel 1932, monsignor Re lo nominò rettore del Seminario, per sostituire il canonico Danusso. Anche questo incarico fu accettato con umiltà, e con la consapevolezza di fare la volontà di Dio. L’anno dopo, venuto a mancare monsignor Re, la Santa Sede emanava un decreto con il quale eleggeva e costituiva «Amministratore apostolico della diocesi di Alba, don Francesco Chiesa, canonico della cattedrale della stessa diocesi e parroco dei Santi Cosma e Damiano, con tutti i diritti, facoltà e privilegi inerenti a questo ufficio».

A questo punto ci viene spontaneo farci una domanda: come mai un sacerdote della tempra e della qualità del canonico Chiesa, non è stato nominato vescovo?  Tutti i suoi biografi ricordano questo fatto: nel 1919, l’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Richelmy gli aveva prospettato questa eventualità, ma al primissimo accenno il canonico rispose decisamente che non si sentiva affatto all’altezza di questa responsabilità.

Da tutte queste testimonianze, trapela il segreto di una vita umana e sacerdotale ricca e riuscita da ogni punto di vista. Il canonico Chiesa era un uomo ”libero”: godeva di una libertà a tutto campo, curata giorno dopo giorno, rispecchiata nel suo “Diario personale”, che è il diario di bordo fedele della sua vita interiore; come il “Diario parrocchiale” era lo specchio del suo apostolato. Si, il servo di Dio, trovava il tempo nella sua giornata di fare due ore di adorazione, di tenere due diari. Dal diario personale, comprendiamo quanto conoscesse sé stesso e i suoi limiti, ammessi con disarmante umiltà; conosciamo quanta cura abbia investito nel lavorare il suo carattere, consapevole, che il «parroco è una persona plasmata nella fede e fusa nella fornace del divino Amore» (Così si esprime il giorno del suo ingresso in parrocchia). Il Diario parrocchiale invece è tutto precisione e concisione: è un insieme di dati, di cifre, di annotazioni di ogni genere. In questo diario per ogni domenica sono annotate le balaustrate delle comunioni; per qualunque riunione, adunanza, lezione di catechismo, funzione normale o speciale, è annotato il numero dei partecipanti, la data, l’attenzione dei presenti, ciò che è stato positivo, ciò che si sarebbe dovuto migliorare.

Nel Vangelo di Giovanni, troviamo questa affermazione di Gesù: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». L’essere liberi è la condizione fondamentale per essere santi. L’io ripiegato su sé stesso, che non si conosce né tantomeno accoglie la Parola di Gesù, non può compiere un cammino né verso la libertà interiore, né verso la santità. Da quanto risulta dalla vita del servo di Dio, egli era una persona unificata nel suo intimo, libero dall’attaccamento al denaro, da ogni ombra di carrierismo, capace di relazioni positive con tutti, superiori e inferiori, autorevole senza essere autoritario, e per questo stimato e apprezzato dai suoi confratelli.

Per noi cristiani la santità non è un’astrazione: non è un’astrazione, in quanto prima della santità esistono i santi. Non è un’astrazione in quanto non è un aderire a un generico modello di virtù, per giungere a prestazioni eccezionali, ma è un conformarci con tutto il nostro essere a Cristo; non è un’astrazione in quanto il primato di Dio e la conformazione a Cristo si incarnano in una personalità umana matura e docile per essere continuamente plasmata e riplasmata dall’azione dello Spirito Santo.

Il canonico Chiesa prima di tutto fu un uomo, dotato di una umanità squisita e matura, messa a disposizione completa dell’azione della Grazia, che lo ha portato a salire così in alto. Egli prestò tutta la sua umanità, tutto il suo cuore, agli enormi doni che il Signore gli diede, così da diventare nella Chiesa albese un modello per tutti noi.

A conclusione della prima parte del mio intervento, riporto una bella pagina di sapore autobiografico di monsignor Vigolungo. Egli ricorda così una sua omelia. «A pochi passi dal Seminario, c’è la piccola e bella chiesa di Santa Caterina. Un tempo si allungava su di un fianco, in una specie di grosso coro semibuio, dove all’occasione, noi chierici e seminaristi venivamo ammassati, come in quella giornata, di cui non ricordo più la circostanza, ma che ebbe una profonda risonanza nel nostro cuore. Era la prima volta che, senza vederlo, sentivamo la sua voce risuonare in una chiesa; quella voce tra il fioco e il metallico, che non aveva risorse, se non nelle cose che diceva e nell’animo che li ispirava. Spiegava il testo del Vangelo: “Chi perderà la propria la vita per causa mia e del Vangelo, la troverà” (Mc 8,34). La vita che si salva, perdendo la vita, la vita che si possiede soltanto se si dona, l’io che diventa qualcuno soltanto se si perde tutto, l’io che ritrova sé stesso sacrificando ogni egoismo, l’io che cessa di essere un peso quando cessa di essere il centro d’interesse… La riuscita che tocca a chi ha rinunciato a farsi largo. A pensarci bene, lui fu tutto questo. Ha perduto tutto per superare il divario tra quello che si è e quello che si deve essere. Al termine della sua vita non troviamo nulla, neanche il desiderio di essere ricordato». Parole profetiche, nel senso personale, in quanto sul letto di morte, le sue ultime parole furono: «Ora ho proprio finito, ho dato tutto». Come vedremo nella seconda parte parole profetiche anche per quanto riguarda il cammino della nostra umanità. Per questo abbiamo il dovere di ricordarlo e di tramandarne il ricordo a chi viene dopo di noi

 Un uomo così docile all’azione dello Spirito, come avrebbe affrontato oggi i problemi così acuti e cruciali della Chiesa? Come avrebbe affrontato per esempio l’ampio e sconfinato dibattito che tormenta la Chiesa dal Concilio in avanti, quindi da più di cinquant’anni, quello della nuova evangelizzazione?  Come avrebbe affrontato il problema acutissimo della trasmissione delle fede cristiana alle nuove generazioni, lui che tante energie aveva dedicato alla formazione delle catechiste?

Per fare confronti corretti, è necessario renderci conto, che il nostro tempo è un tempo particolare: è un cambiamento d’epoca e non solo un’epoca di cambiamento. Pe quanto riguarda la Chiesa, non si tratta soltanto dell’Ecclesia semper reformanda, ma l’istituzione Chiesa oggi ha bisogno di una riforma radicale di tutti gli aspetti della sua vita, in un tempo in cui tutte le istituzioni che determinano il modo di vivere degli “umani” sulla terra, sono in crisi. Se non ci rendiamo conto del carattere specifico e ultimativo della crisi che oggi viviamo, non possiamo sperare di trovare soluzioni adeguate: sarebbe come volere curare l’attuale pandemia con il vaccino dell’influenza normale. Per capire inoltre la crisi attuale della Chiesa, occorre avere una visione ampia, cioè non limitarci alle questioni di retrovia, e neppure soltanto a quelle di sacrestia, in quanto questa crisi riguarda tutti: credenti e non credenti, cristiani e non cristiani. Riguarda ogni uomo: è una crisi globalizzata, come è globalizzata e interconnessa la società: non riguarda soltanto un aspetto della vita umana, ma tutti gli aspetti, quindi è una crisi “antropologica”, che tocca cioè tutto l’uomo, ogni uomo e tutte le sue dimensioni, e nello stesso tempo è “apocalittica”, nel senso del significato profondo della parola, che significa “rivelazione”; è rivelazione in quanto tutti i nodi emergono e vengono al pettine.

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Il giovane don Giacomo Alberione si faceva consigliare dal canonico Chiesa

Per capire come siano intrecciate la crisi della società “post-moderna” e quella della Chiesa, e per fare chiarezza sull’una e sull’altra, occorre mettere in chiaro alcuni presupposti fondamentali. Primo di tutto, come credenti non possiamo essere pessimisti totali e radicali. Crediamo che in ultima istanza la storia sia nelle mani di Dio, che pur rispettando la libertà umana, e patendola e soffrendola nel dono del Figlio, crocifisso-risorto, quindi tollerando la presenza del male, della zizzania in mezzo al buon grano fino alla mietitura, noi crediamo che ci sia una mietitura, e sarà il compimento del disegno di Dio. Gesù dice con chiarezza: «Io ho vinto il mondo». Schierati dalla sua parte, rinnovando ogni giorno questa scelta, non abbiamo nulla da temere.

Un altro presupposto fondamentale, sempre di origine evangelica, è la concezione “evolutiva” della storia umana, e in qualche modo anche del processo creativo di tutto l’universo (La scienza parla di un universo in continua espansione). Anche se il pensiero laicista moderno non lo sa, o magari finge di non saperlo, questa concezione evolutiva ha origine nel pensiero ebraico-cristiano; in altre culture non c’è: tutto è statico, tutto è eterno ritorno, e gli dèi non si interessano affatto delle vicende degli uomini. Nel cristianesimo, Dio non è soltanto vicino agli uomini, ma nel Figlio si è fatto uomo, nel tempo e nella storia e ha dato al corso della storia umana una svolta e una direzione ben precisa, che nel racconto dei Vangeli è connotata con la categoria del “Regno di Dio”.

Questa idea “evolutiva” della storia è stata la dinamica più o meno evidente del progresso del pensiero filosofico, umanistico, artistico, scientifico dell’Occidente, che non per caso è avvenuto nell’ambito di una società cristiana; favorito e guidato dalla Chiesa per molti secoli, e che poi si è laicizzato dal Rinascimento in avanti.  Questo percorso evolutivo ha portato un innegabile sviluppo della conoscenza, del pensiero, della scienza, della medicina, della tecnica in ogni ambito della vita umana: è stato un processo di liberazione politico e sociale per ampie masse di popolazione, sfruttate da poteri assoluti, soppiantati da ricorrenti rivolgimenti, fino al raggiungimento di sistemi democratici. Nella seconda metà del secolo scorso, si è arrivati a un benessere economico diffuso, che è riuscito a estendersi in certa misura anche alle classi storicamente subalterne. Questo progresso è stato enorme in tutti i campi.  Ma in esso ravvisiamo anche molte ombre e molte ambiguità

Registriamo prima il distacco dalla Chiesa, poi dalla fede cristiana, e infine la negazione di ogni fede nel Trascendente, con l’affermarsi del materialismo scientista e poi delle grandi ideologie marxiste, fasciste e naziste dei secoli appena trascorsi. Gli effetti sono stati catastrofici: due guerre mondiali, campi di sterminio, genocidi; la tecnica usata per uccidere è arrivata a minacciare la sopravvivenza dell’umanità. Idee false su Dio, sull’uomo, sul senso della vita umana, producono idoli e mostri e gli idoli e i mostri sono sempre assetati di vite umane!

Grosso modo, dopo la caduta del muro di Berlino, cioè dopo il totale fallimento dei regimi del comunismo reale, si è avviato un processo che nell’economia ha portato alla globalizzazione del mercato e della finanza. L’economia finanziaria ha preso il sopravvento su quella reale, il potere finanziario è passato dagli Stati nazionali a una oligarchia formata da grandi famiglie, da imprese multinazionali, che si è arricchita a dismisura, ha reso succube ai propri interessi il potere politico, ha impoverito la classe media e ha reso precario il lavoro, sempre meno rimunerato e incerto. Questi poteri, più o meno occulti hanno in mano le fonti della comunicazione di massa ed esercitano un’enorme influenza nell’orientare l’opinione pubblica.

È la prima volta nella storia umana che il nostro vivere sulla terra ha la caratteristica della globalizzazione, con tanti effetti potenzialmente positivi, ma anche con pericolose ambiguità. Sarà urgente e necessario nella Chiesa fare questo primario discernimento tra gli aspetti cristici-messianici di questo processo e quelli invece involutivi e assolutamente incompatibili allo stato attuale dell’evoluzione della storia umana.

Sono aspetti certamente negativi quelli elencati dal Papa nell’Evangelii gaudium dal numero 53 in avanti: i decisi “no”, no a un’economia dell’esclusione, no alla nuova idolatria del denaro, no a un denaro che governa, invece di servire, no alla disuguaglianza che genera violenza.

Certamente dobbiamo andare oltre alle conseguenze economiche negative di questo sistema, che si è affermato in questi ultimi decenni e capire che c’è all’origine una concezione falsa dell’uomo: c’è una filosofia vetero-materialistica, individualistica (smentita oggi dalla scienza) funzionale al dio-mercato, che riduce l’uomo a individuo isolato, senza famiglia, senza radici, senza appartenenze forti, senza motivi per vivere, impaurito e indifeso in un eterno presente,  ridotto a una rotellina insignificante e intercambiabile del mercato globalizzato.

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Il canonico Francesco Chiesa

Occorre andare ancor più in profondità e trovare una chiave interpretativa che ci apra alla conoscenza di questa crisi, che ci faccia capire se è una crisi irreversibile o se è una crisi di crescita, capire i criteri di discernimento per orientare il nostro agire: la nuova evangelizzazione non può limitarsi a un discorso astratto: dobbiamo comunicare il Vangelo a un’umanità che vive in questa situazione, come del resto la viviamo tutti, in quanto anche la crisi è globalizzata. A questo punto occorre consultare coloro che già da molto tempo hanno previsto quanto stiamo vivendo, perché hanno saputo vedere più lontano. Ce ne sono stati tanti. Ne cito uno solo: Romano Guardini che nel 1950 ha scritto La fine dell’epoca moderna, dove afferma: «Con assoluta certezza si può dire che inizia una nuova era della storia».

Le voci di questi “profeti” sono concordi nell’affermare che sta morendo un modo di essere uomini sulla terra che ha caratterizzato la storia passata, si può dire fin dall’inizio e che sta faticosamente emergendo, a volte in modo confuso e contraddittorio un “uomo nuovo”; qualcuno lo chiama “inedito”. Sta insomma collassando un IO umano autocentrato, egoico, che definisce tutte le sue identità contrapponendosi all’altro da sé, facendo la guerra, conquistando, violentando e depredando. Noi cristiani sappiamo da duemila anni che questo tipo di IO autocentrato ci porta alla rovina: «Chi tiene per sé la propria vita, la perderà», però concretamente, tante volte individualmente e comunitariamente ce ne siamo dimenticati.

Ma oggi, e sono i fatti a ricordarcelo, se continueremo a farci la guerra, rischiamo di mettere fine alla vita umana sulla terra, se continuiamo a depredare il nostro pianeta, a inquinare l’aria ad avvelenare i mari, quale futuro avranno le generazioni che vengono dopo di noi? Il cambiamento non è più soltanto un imperativo morale, ma è diventato una necessità per la sopravvivenza della specie!

Questa è la novità e l’unicità dell’attuale crisi. Non abbiamo mai vissuto un passaggio del genere: è la prima volta nella storia. Il modo di comportarsi dell’uomo autocentrato non è più sostenibile. Quali caratteristiche avrà l’”uomo nuovo”? Sarà capace di affermare la sua identità relazionandosi all’altro, conoscendo e rispettando l’identità dell’altro: quindi sarà capace di dialogo, rifuggendo ogni tipo di rapporto inquinato dalla falsità, dalla coercizione, dalla violenza.

Anche al riguardo, noi cristiani da duemila anni crediamo che il “prototipo”, la “primizia” della nuova umanità è il Cristo risorto: è lui il nostro traguardo; il disegno di Dio è di portare l’umanità alla «unificazione e alla divinizzazione in Cristo». Noi cristiani crediamo anche che per ciascuno di noi, l’uomo nuovo, nasce nel momento del nostro Battesimo, quando muore l’io vecchio e ci «conformiamo a Cristo»: ma un conto è essere battezzati e un conto è vivere quello che con il Battesimo siamo diventati! La nuova evangelizzazione ha bisogno di testimoni credibili: siamo noi per primi che dobbiamo essere rievangelizzati, per comunicare la buona notizia che l’uomo nuovo sta nascendo nella misura in cui crediamo e ci apriamo alla “Verità” che ci fa liberi, che è la persona e il messaggio di Cristo. Dobbiamo anche onestamente confessare con sincerità, che nel passato non sempre siamo stati gli araldi della nuova umanità nascente, i profeti dell’“Uomo nuovo”, che nasce morendo all’uomo vecchio e rinasce in Cristo risorto, nuovo Adamo. Eppure la voce dei profeti si è fatta sentire: Riporto al riguardo un testo che mi sembra molto ricco.

«La fede cristiana crede che Gesù di Nazaret sia l’uomo esemplare (è il concetto paolino di “ultimo Adamo”). Ma appunto in quanto uomo esemplare, normativo, egli travalica i confini dell’umano; solo così e solo in virtù di questo, egli è davvero l’uomo esemplare. Si, perché l’uomo è tanto più sé stesso quanto più è presso gli altri; egli perviene a sé stesso solo staccandosi da sé. L’essere umano è, in ultima analisi ordinato all’altro, al “veramente” Altro, cioè a Dio; e tanto più è presso di sé quanto più è presso il “totalmente” Altro, presso Dio, per cui è integralmente sé stesso, quando ha cessato di essere per sé, di chiudersi in sé, quando è diventato perfetta apertura a Dio… Gesù Cristo è l’uomo totalmente uscito da sé stesso, pertanto è l’uomo veramente pervenuto a sé stesso… In Gesù Cristo il processo del divenire-uomo, ha veramente raggiunto il suo traguardo… La fede cristiana vede in Cristo l’inizio di un movimento nel quale l’umanità divisa viene gradualmente ricomposta nell’essere di un unico Adamo, in un unico corpo, quello dell’uomo che deve venire» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, pag. 224ss). Questa è altissima teologia e si respirano anche a pieni polmoni le mirabili e profetiche intuizioni di Teilhard de Chardin.

Mi domanderete che relazione ha tutto questo con la vita del canonico Chiesa, certamente nella sua teologia, in quel suo tempo, non poteva esprimersi in questi termini, ma egli ha profeticamente incarnato nella sua vita di pastore, l’uomo “totalmente uscito da sé stesso”, l’uomo che si è “fatto tutto a tutti, pur di salvar qualcuno”. Per questo possiamo annoverarlo tra i profeti, tra gli anticipatori dell’“uomo nuovo” che faticosamente spinge per venire fuori da questo cambiamento d’epoca, da questa crisi, che non sarà una crisi terminale della fede cristiana, ma una crisi di crescita se avremo il coraggio di uscire dalla palude di un mondo che ci soffoca, per vivere e testimoniare in questo mondo l’unica verità che può farci veramente liberi, che è quella immutabile di Cristo e della sua “buona notizia”. La nuova evangelizzazione per non essere una formula astratta del linguaggio ecclesiastico, dovrà tener conto di questa situazione che stiamo vivendo: dovrà essere un modo nuovo di vivere e di testimoniare la nostra fede, per annunciare a tutta l’umanità un modo nuovo di vivere su questa terra. Questo è il compito enorme, fantastico e inedito che attende la Chiesa di oggi e di domani. Certamente non è soltanto un problema di linguaggi, non è soltanto un problema di adeguamento di strutture – magari fosse soltanto questo – ma questa società smarrita e confusa, inebetita dalla pubblicità e dalle suadenti litanie dei sacerdoti dell’idolo-mercato, per svegliarsi ha bisogno che la fede dei cristiani sia molto più coerente, molto più contagiosa, molto più vissuta all’aperto, nei gangli vitali del vivere degli umani, che non nelle sacrestie. Ma per svegliare gli altri occorre che siamo svegli noi. Siamo noi i primi a dover essere evangelizzati! La storia immancabilmente ci dice che la vera riforma della Chiesa la fanno le persone libere: i santi.

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