
ALBA Era l’immediato Dopoguerra quando, grazie all’impegno di sindacalisti del calibro di Cesare Delpiano, la mezzadria e le altre forme di lavoro agricolo sfruttato in Langa vennero debellate. Fu una vera e propria rivoluzione sociale, da cui nacque il riscatto socioeconomico di un territorio. Sono passati una settantina di anni e ci stiamo indignando di fronte a nuove forme di capolarato. Che cosa è accaduto?
Forse è utile ripercorrere gli ultimi trent’anni. Lo sviluppo della viticoltura è andato di pari passo al venir meno della manodopera. Per questo, venti, trent’anni fa arrivarono i macedoni che, forti della loro professionalità, diventarono tra gli artefici di un paesaggio che nel 2014 l’Unesco riconobbe patrimonio dell’umanità. Poi, i macedoni se ne andarono. Sottopagati dai viticoltori e dalle nascenti cooperative di intermediazione lavoro (ancora in mano agli italiani) decisero di migrare in massa verso la Mitteleuropa, dov’erano meglio considerati. Nel frattempo, la legge Bossi-Fini – ancora in vigore – ha imposto flussi d’immigrati del tutto insufficienti rispetto alla domanda. In provincia di Cuneo arrivavano circa 1.200 regolari all’anno a fronte di una richiesta non inferiore ai 10mila addetti in agricoltura. E la fotografia resta attuale.
In questo modo la manovalanza irregolare, proveniente dal continente africano (ma non solo), dalle pianure saluzzesi si è spostata in Langa e Roero. Arruolati in nuove forme cooperativistiche o in “imprese senza terra”, spesso porti franchi senza controlli, gli africani hanno iniziato a lavorare nelle vigne Unesco. Non solo in quelle perché – giova ricordarlo – le nostre colline non producono solo Barolo e Barbaresco, ma pure vini altrettanto nobili, pagati molto meno.
Sono intanto cresciute le cooperative, nelle quali i titolari non sono solo più italiani ma anche macedoni o albanesi, da lavoratori divenuti imprenditori.
Va detto che fa comodo un po’ a tutti. Tiene insieme la flessibilità del lavoro necessaria alle imprese («Chiamo la cooperativa quando mi serve») con la sostenibilità economica; consente un’intermediazione che supera le rigidità del mercato occupazionale; crea un “muro” tra datore di lavoro reale (l’impresa agricola) e l’addetto.
Si tratta di un muro al di là del quale nessuno vuole guardare.

Perché se si guarda, purtroppo, si possono vedere immagini raccapriccianti. Quelle che abbiamo visto nei giorni scorsi. Lavoratori sfruttati, maltrattati, sottopagati, senza un tetto, senza dignità.
«Non si poteva e non si può parlare: è contro il nostro interesse. Sarebbe un danno per l’economia e la nostra immagine». Queste le frasi, che tradiscono un diffuso atteggiamento omertoso. Sta di fatto che la vergogna è cresciuta e adesso sta affiorando senza che sia possibile contenerla (e meno male!). Con un’aggravante. Avere messo la polvere sotto il tappeto per troppo tempo ha fatto crescere larghe fasce di sfruttamento in cui non è più da escludere la presenza della criminalità organizzata.
Dalla Malora all’Unesco abbiamo spesso ripetuto. Ma sulle colline Unesco è tornata la Malora.
Occorrono provvedimenti legislativi forti, che mettano controlli su queste forme di lavoro sfruttato. Non bastano i tavoli e i protocolli. E occorre un sussulto di dignità di noi abitanti di Langa e Roero: dobbiamo ribellarci al caporalato. Il riscatto della nostra terra, frutto del lavoro di generazioni, non può tollerare il ritorno a nuove forme di schiavitù. È in gioco la nostra dignità, insieme a quella calpestata dei lavoratori umiliati.
Maurizio Marello
