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Nello Sri Lanka l’accoglienza è fatta coi sorrisi e la gentilezza

La seconda parte del viaggio di volontariato ha portato Elisa Pira nell’Oceano Indiano, in una casa delle suore di Madre Teresa

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REPORTAGE  Dopo un mese intenso nel Sud dell’India, sono pronta per la tappa successiva del mio viaggio, che proseguirà ancora più a Sud, in direzione Sri Lanka. “Perla dell’Oceano Indiano” e “Lacrima dell’India” (così è stato ribattezzato il Paese per la sua forma e posizione), offre paesaggi che vanno dal mare alle montagne, passando per colline verdeggianti coperte dalle piantagioni del celebre tè di Ceylon, tra templi di ogni foggia e colore e parchi nazionali ricchi di fauna selvatica. Ma qui a colpire non è solo la bellezza dei luoghi: la gentilezza è ovunque di casa. Ampi sorrisi mi vengono elargiti da persone di ogni età, spesso accompagnati da offerte di aiuto, consigli o raccomandazioni.

Tra i disabili

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Anche per questo viaggio, scelgo di conoscere il Paese immergendomi nella sua cultura. Da Colombo, la capitale, mi sposto a Kandy, dove mi attendono due progetti di volontariato, intervallati da visite ed esperienze culturali. Il primo è qualcosa che non ho mai fatto prima. Ciò per cui mi sono candidata, dalla generica dicitura “supporto alla comunità”, è il servizio in una delle case per disabili gestita dalle Missionarie della carità, la congregazione fondata da Madre Teresa di Calcutta.

Di una decina di volontari, sono stata l’unica a iscrivermi a quel progetto, ma dopo un paio di giorni siamo già in sei, e altri arriveranno: quando qualcuno, magari impegnato in altri progetti, entra nella casa con l’obiettivo di provare, poi ci rimane. Il registro che riporta l’esperienza dei volontari passati da lì parla chiaro: è un’esperienza che lascia il segno, e lo fa sempre in positivo.

Se nel nostro immaginario (perché di questo si tratta, di immaginazione, quando pensiamo a qualcosa senza averne conoscenza, se non esperienza) si tratta di ambienti tristi, se pensiamo di non sentirci pronti o adatti, o di non volerci far carico delle altrui presunte sofferenze e debolezze, bastano poche ore nella casa per far crollare questo muro di sabbia di convinzioni. L’impatto col luogo indubbiamente c’è, ma forse deriva anche dal realizzare che tutto ciò che abbiamo sempre creduto sia irrimediabilmente sbagliato: è necessario cambiare prospettiva.

Il senso di smarrimento

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All’ingresso, il primo giorno ci si sente smarriti: in un ambiente che ospita oltre cento donne di tutte le età e con ogni tipo di disabilità, fisica e psichica, si viene avvolti e travolti da tante voci, odori e sensazioni. Eppure, da subito non si può rimanere indifferenti all’atmosfera di profonda umanità che pervade ogni centimetro della Casa, semplice ma pulita in ogni angolo, al calore dei sorrisi, all’attenzione della cura dedicata a ognuno. Le suore (quattro, al mio arrivo) gestiscono tutto magistralmente, coadiuvate da premurose lavoratrici e dai volontari. Nulla sfugge a un’organizzazione meticolosa, dalla distribuzione delle medicine ai pasti, dalle pulizie alla gestione dell’asilo e della scuola per i piccoli: ogni gesto porta con sé un affetto che si riesce a sentire, ma non a spiegare.

Tutto trasuda dignità. Ci si sente utili fin dal primo istante. A cambiare le lenzuola e rifare i letti, a pulire i pavimenti, ad aiutare all’asilo, a stendere i panni o a distribuire i pasti, persino a chiacchierare con chi non capisce la tua lingua, ma sa che sta ricevendo la tua attenzione.

Niente foto e social network

Bastano pochi giorni per rendersi conto che la felicità può avere molte forme differenti e che non è automaticamente correlata all’uso delle braccia o delle gambe e che esistono quotidianità differenti da quelle a cui siamo abituate, ma non per questo meno normali. La cura di queste suore, la loro accoglienza verso coloro i quali sono comunemente oggetto di respingimento, colpisce l’occhio e va dritta al cuore.

Ogni regola, e ce ne sono tante, è volta alla tutela di queste persone. Le suore chiedono di non fare foto, soprattutto per evitarne la pubblicazione sui social, una scelta dettata dall’esigenza di tutelare soggetti fragili, di proteggerli, garantendo loro il rispetto che meritano, per evitare che i vulnerabili vadano esibiti, invece di custodirli, come raccomandava papa Francesco.

Regole basilari, che nel nostro Occidente abbiamo imparato a rispettare, ma che una volta giunti in queste realtà più disagiate ci lasciamo spesso alle spalle, la privacy insieme col buonsenso. Ma non qui, non al Daya Nivasa delle instancabili suore di Madre Teresa, attente come un genitore a tutti questi figli acquisiti e voluti.

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Insegnare col cuore

La giornata non è ancora finita. I pomeriggi li trascorro in un villaggio, insegnando inglese ai bambini in una piccola aula ricreata nel cortile di una famiglia. Ci sistemiamo tra gli alberi di guava e melarosa e studiamo l’inglese a modo mio, con l’arte e il disegno. Il primo giorno ho quattro bimbe, poi si uniscono le cuginette, le sorelle, le vicine di casa. L’ultimo giorno, nella letterina che mi lascia per salutarmi, Sehansa mi scrive un ringraziamento per essere stata «una vera insegnante, di quelle che insegnano non seguendo il libro, ma il cuore».

In quel momento diventano chiare le parole della monaca buddhista incontrata pochi giorni prima: «Questo Paese è molto bello, i turisti tornano a casa con bei ricordi di luoghi, ma per voi volontari, che siete qui per aiutare, c’è di più: voi porterete a casa un guadagno». Aveva ragione.

Elisa Pira

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