
PRIMO MAGGIO Il lavoro nel mondo moderno occupa la maggioranza delle vite individuali e familiari, in termini orari, ma anche emotivi. Molti si identificano col proprio impiego e lo considerano missione, strumento di autorealizzazione, misura del proprio valore. Altri invece si distanziano da esso, lo trattano come un problema da gestire e da ridurre nella sua influenza. Per capire cosa accade a livello locale, partiamo dai numeri.
I dati di Ires
In provincia di Cuneo secondo i dati Ires Piemonte pubblicati a marzo nel rapporto di Quadrante Sud-ovest, il tasso di disoccupazione è più basso rispetto alla media regionale e alle altre province. Il punto più elevato è stato raggiunto nel 2013 arrivando al 6,8%, ma si è ridotto nel tempo arrivando al 3,6% nel 2023. Sia nel confronto con le altre aree piemontesi che con quelle extraregionali, Cuneo è quasi sempre rimasta la migliore nel ventennio preso in esame. Si parte dunque da un dato “buono” a livello quantitativo.
Per quanto riguarda i settori, il tessuto provinciale delle imprese è caratterizzato dalla presenza di micro e piccole realtà: solo 40 su 52.880 hanno più di 250 addetti. Per quanto riguarda l’ambito territoriale di Alba, la città impiega 51.058 addetti, di cui 15.853 nel manifatturiero e 22.140 nei servizi – escluso il commercio. È il territorio che più di tutti, nel Quadrante, presenta un’alta specializzazione nei settori di prodotti alimentari e bevande. Qui si trovano 331 unità locali e oltre 7.300 addetti, di cui 5.560 impiegati nella produzione alimentare. A fronte di un mondo occupazionale dal- l’apparenza solida, sul fronte qualitativo emergono molteplici problematiche.
Il sondaggio
«Troppo carico di lavoro poco stipendio. Mi sento un numero. Nessuna soddisfazione e rapporto con i capi, niente pausa, tutto zero». È una delle testimonianze raccolte da Gazzetta d’Alba nel sondaggio proposto on-line ad aprile. La ricerca aveva come scopo quello di raccogliere storie e testimonianze delle persone rispetto al proprio impiego: quali le paure, le gioie, i desideri e i rimpianti di chi vive nella comunità locale rispetto alla propria mansione?
Un altro lettore racconta: «La cosa bella del mio lavoro è avere la possibilità di conoscere persone variegate, amanti e appassionate della cultura. Tra le difficoltà, essendo a contatto col pubblico, devo gestire anche ignoranza maleducazione e a volte aggressività. Oltre al disinteresse al vero senso del lavoro da parte di responsabili e azienda».
La distanza dei vertici decisionali dalla “base della piramide” ritorna con frequenza nelle narrazioni. Prosegue una lettrice: «Sono grata di poter portare avanti ciò che hanno costruito i miei nonni, ma riscontro gravi difficoltà nel ricambio generazionale e poca inclusività del genere femminile in settori da sempre considerati “maschili”».
Infine: «Sono un medico, lavoro da trent’anni in emergenza anche ad Alba e Bra. Quando riesco a essere a casa con la mia famiglia a Natale e penso che anche uno solo dei miei pazienti (meglio se più di uno), nello stesso momento sta mangiando il panettone con la propria famiglia perché ho lavorato bene, è la mia soddisfazione maggiore».
Retribuzione scarsa
Molti intervistati lamentano la scarsa retribuzione e la bassa valorizzazione personale nel proprio lavoro. Il mercato occupazionale locale appare condizionato da numerose problematiche, nonostante la sua buona reputazione nel panorama provinciale, regionale e anche nazionale.
Per molti dei rispondenti si lavora troppo rispetto alle energie disponibili: «Otto ore al giorno per 5 o 6 giorni a settimana non penso sia il modo giusto di affrontare il lavoro. Lavorare meno e più concentrati o semplicemente ognuno con i propri ritmi o orari preferiti renderebbe tutto più produttivo». E un altro: «È diffusa ancora l’idea per cui ha più valore chi lavora molto a discapito di famiglia, relazioni e tempo libero. Si tende a preferire il concetto di vivere per lavorare e non lavorare per vivere».
La manodopera
A livello generale, dice un altro lettore, «nel nostro territorio pesano la carenza di manodopera qualificata, la burocrazia, i costi del lavoro e la resistenza all’innovazione. Dal mio punto di vista però il vero nodo è il ricambio generazionale: manca un passaggio fluido tra vecchie e nuove generazioni, e i giovani trovano un sistema poco aperto al cambiamento».
E ancora: «Dipendiamo tutti da una sola multinazionale dolciaria (un territorio di 100mila abitanti circa non può reggersi esclusivamente su un’industria). Questo implica che il lavoro è troppo specializzato in un settore e se questa multinazionale chiude la situazione sarebbe disastrosa, con poca possibilità di ricollocamento dei lavoratori altrove».
Pessimo o cattivo
Le ombre percepite dalle persone vengono confermate dai numeri. In Piemonte, secondo i dati di Ires pubblicati a fine 2024, un occupato su dieci giudica “cattivo” il proprio lavoro e il 5% “pessimo”. La percezione negativa è più frequente tra le donne, mentre tra i giovani coinvolge un occupato ogni tre, e uno ogni 4 tra chi ha un titolo di studio basso. Inoltre, il 17% dei lavoratori piemontesi considera possibile perdere il proprio impiego: un’incidenza che aumenta tra gli operatori del commercio, tra i tecnici, tra i dirigenti e i funzionari e tra i più giovani.
Gli irregolari
Infine, ammontano a circa 190mila i lavoratori irregolari stimati in Piemonte, circa il 10% degli occupati. Questa categoria mostra una fragilità particolare, perché priva delle più basilari tutele.
Tutti questi fattori rendono il mondo del lavoro locale precario e costellato di punti critici da risolvere per riuscire a creare una reale qualità di vita delle persone, armonizzando il lavoro alle vite individuali, rendendo queste ultime prioritarie in ordine di importanza rispetto ai livelli produttivi o alla mansione ricoperta.
Stefano Mo
Se domanda e offerta non si incontrano, manca il personale
Un altro fenomeno riguarda la saturazione del mercato del lavoro. Come spiegano Giorgio Vernoni e Serena Drufuca in una ricerca appena pubblicata da Ires Piemonte “Stimare la tensione del mercato del lavoro”, «nell’ultima decade la carenza di personale e la conseguente percezione della sua difficoltà di reperimento da parte dei datori sono caratteristiche distintive del mercato del lavoro in Italia e nelle altre economie sviluppate».
Poi aggiungono: «Le principali ragioni alla base di questo fenomeno possono essere anche ricondotte al trend demografico avverso, al disallineamento professionale o territoriale tra domanda e offerta, ma anche al cambiamento di attitudine delle persone nei confronti del lavoro (in particolare verso alcune tipologie) e al funzionamento (oppure malfunzionamento) dei canali e delle procedure di ricerca del personale adottate dalle organizzazioni».
In sostanza, nel 2018 erano nove le persone occupabili per ogni posizione aperta, scendono a sei persone nel 2024 (-39%), di cui quattro in stato di disoccupazione. La saturazione dell’offerta di lavoro occupabile è nettamente superiore in relazione agli adulti di trenta e più anni, circa 5 persone occupabili per ciascuna delle posizioni disponibili. Mentre in relazione ai più giovani si contano undici persone occupabili per ogni entrata prevista. Significa che è sempre più difficile trovare figure adeguate alle necessità, e con l’evoluzione tecnologica e pure l’avvento dell’intelligenza artificiale questo trend potrebbe peggiorare perché i processi di automazione rischiano di sostituire le abilità umane in numerosi settori. Di conseguenza, aumenteranno disoccupazione e precarietà.
s.m.