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Nella Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio: la storia di papà Marco

Il 10 settembre è la data scelta nel 2003 per sensibilizzare sul tema. In Italia ogni anno si tolgono la vita 4mila persone

Nella Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio: la storia di papà Marco

di  Marta Andolfi

LA RICORRENZA – Dal 2003 il 10 settembre si celebra la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio. Una ricorrenza dedicata a un fenomeno che interessa molte persone, istituita dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’Associazione internazionale per la prevenzione del suicidio con lo scopo di sensibilizzare sul tema.

Secondo le stime Istat, in Italia sono circa 4mila le persone che ogni anno si tolgono la vita. Secondo i numeri di Telefono amico Torino (associazione nata nel 1964 come servizio di prevenzione al suicidio, è una linea di soccorso telefonico dedicata all’ascolto di tutti coloro che stanno vivendo un momento di “emergenza emotiva”), in Piemonte succede circa un suicidio al giorno.

Il 78,8 per cento dei gesti estremi in Italia, sempre secondo l’Istat, sono compiuti da uomini, in linea con quanto avviene a livello mondiale e il tasso di mortalità per suicidio risulta più elevato nel Nord dell’Italia e tra gli anziani, ma è tra i giovani che il suicidio è una delle prime cause di morte. Anche nel territorio delle Langhe e del Roero i casi sono numerosi, anche se di difficile quantificazione: spesso per evitare emulazioni gli organi di informazione non segnalano gli episodi tra le notizie di cronaca.

La testimonianza di un albese

Antonio, un giovane albese di 23 anni che però preferisce rimanere anonimo, racconta: «Quando avevo 16 anni ho passato un brutto periodo. A scuola venivo bullizzato a causa delle mie insicurezze comportamentali, i miei genitori si stavano separando e sentivo dentro di me molta angoscia, che non sapevo come gestire». A un certo punto «ho iniziato ad avvertire pensieri autolesivi, che mi suggerivano di farmi male come unico rimedio alla sofferenza. Per fortuna capii subito che non era quella la soluzione, che la mia situazione era giunta a un limite pericoloso: chiesi aiuto a un terapeuta, lavorammo sodo e uscii da quel periodo difficile. Per qualche mese presi anche dei farmaci, oggi però sento la luce dentro e guardo a quel periodo come un incubo lontano», commenta ora il giovane albese.

La parola a Marco Termenana

Proprio a ridosso del 10 settembre, Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, la comunità è sollecitata a non dimenticare le persone coinvolte dal rischio di suicidio. Per questo, lo scrittore Marco Termenana ha contattato Gazzetta d’Alba per raccontare la sua tragica testimonianza.

«Mio figlio Giuseppe, il primo di tre, si è suicidato a 21 anni da poco compiuti, in una notte di marzo del 2014, a Milano», ha spiegato. «Le cause del suo gesto sono state due: l’identità di genere indefinita, si sentiva più donna che uomo. Noemi era il suo nome, ma non riusciva ad affermarsi. La seconda causa è stato il profondo isolamento, quello che poi, con il passare degli anni, i tecnici hanno iniziato a chiamare hikikomori».

Qui raccontiamo la sua storia.

Nella Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio: la storia di papà Marco 1

L’intervista all’autore Marco Termenana

Termenana, ci può raccontare qualcosa di più su cosa ha significato per lei l’esperienza del suicidio di suo figlio, come ha affrontato gli eventi?

«La scomparsa di Giuseppe ha cambiato la vita di tutta la famiglia, come è facile immaginare, e non mi intrattengo su questo punto. Piuttosto, la riflessione che desidero condividere con quelle famiglie o comunque con quei genitori che vivono lo stesso dolore è che, almeno dalla mia esperienza, è importante non lasciarsi andare e cercare qualcosa che aiuti a continuare a vivere, perché il trauma è fortissimo. La mente umana non è programmata per reggere a questo tipo di dolore e senza un adeguato meccanismo compensativo la vita diventa un inferno. Addirittura, si può arrivare a gesti inconsulti. Io la compensazione l’ho trovata prima nella scrittura e poi nella sua divulgazione».

Perché a suo avviso nella società di oggi accadono ancora molte situazioni di questo tipo, perché i giovani soffrono così tanto?

«Non mi sento di generalizzare. A stento ho capito le dinamiche di quello che è successo a mio figlio Giuseppe, dopo 11 anni, ho ancora tanti dubbi e molte domande senza risposte, figuriamoci esprimere valutazioni collettive. Per quanto riguarda mio figlio, lui è nato così: “da hikikomori”, se si può usare questa espressione. Mia moglie e io non siamo mai riusciti ad avere una diagnosi, una spiegazione del perché aveva paura di tutto e tutti e stava sempre rinchiuso. Ora mi piacerebbe aiutare lo studio e la ricerca sulle malattie mentali dell’età evolutiva, vorrei creare una fondazione per perseguire questo scopo, e non è detto che non ci riuscirò se le cose continuano ad andare come stanno andando».

Le difficoltà affrontate in famiglia 

«Sì, c’è stata battaglia in famiglia perché mia moglie, mio figlio e mia figlia non volevano assolutamente che raccontassi la storia di Giuseppe. Mio figlio, addirittura, per un anno non mi ha parlato. Dopo tanto tempo oggi le cose vanno un pochino meglio, ma le distanze sono rimaste fortissime con tutti e tre. Nessuno di loro partecipa ai successi del libro, tanto meno alle presentazioni. Con il passare del tempo ho capito che i ragazzi si vergognano, non del fatto che Giuseppe si sentisse donna senza riuscire a esprimersi veramente, ma del fatto che si sia suicidato. Per mia moglie, invece, è diverso. Premesso che, sempre a partire dalla mia esperienza, le mamme sono quelle che soffrono di più, lei desidera dimenticare, ha eretto un muro, non mi parla mai di Giuseppe e anche al cimitero non è che la si veda tanto».

Ha un messaggio per i figli e i genitori di oggi?

«Prima mi rivolgo ai ragazzi. Mio figlio ha fatto un’enorme sciocchezza a tenersi tutto dentro. Non fate lo stesso errore, qualunque sia il vostro problema. Parlate ai vostri genitori. Se non avete un dialogo con loro come avviene spesso da giovani, fatelo con un professore, un sacerdote, un amico, un fratello o una sorella più grande, lo psicologo dello sportello d’ascolto presente nelle scuole, ma non tenetevi le cose dentro ed evitate che si arrivi a livelli di non ritorno. E voi genitori, state con i vostri figli il più possibile quando sono bambini, perché poi quando prendono il volo questi momenti rimarranno e serviranno per tenervi uniti. Se sono già adolescenti, invece, parlate, parlate, parlate loro. Anche quando vi sembra che non vi ascoltino, anzi vi beffeggiano. Non è stato il mio caso, ma quello che dite, un giorno potrebbe anche salvare le loro vite perché sono dei semini che non sapete mai come gemmeranno»

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