di Maria Grazia Olivero
25 NOVEMBRE – Una donna viene uccisa quasi ogni tre giorni nel nostro Paese, troppo spesso per mano della persona che ama o che ha amato. Nel 2024 sono stati registrati in Italia 314 omicidi, con 111 donne vittime, sovente uccise in ambito familiare o affettivo. Il drammatico fenomeno si chiama femminicidio e la lugubre conta di chi cade prosegue senza variazioni sostanziali.
Se questa è la punta di un iceberg indecente, non sono meno efferate le storie di ordinaria sopraffazione – fisica, sessuale o psicologica – che emergono dai più variegati contesti domestici, sociali e occupazionali. Secondo l’Istat, per limitarci a un esempio, sono quasi un milione e mezzo le donne che hanno subito qualche tipo di violenza sessuale sul posto di lavoro.
E non possiamo dire che si tratta di questioni che non ci riguardano. Per leggere anche il nostro contesto, va ricordato, tanto per citare, che un uxoricidio è avvenuto a Bra in anni non molto lontani, tanto che in via Cavour si può sostare su una panchina rossa che la Cisl provinciale ha dedicato a Marta Forlani, uccisa dall’ex marito. Lui, Michele Bambino, l’aveva minacciata apertamente di morte più volte. Infine l’ha colpita con un pugno e poi ha esploso i numerosi colpi di pistola che l’hanno massacrata.
Ma perché un uomo può pensare di esercitare sulla sua partner un qualsiasi tipo di violenza, arrivando a farla morire piuttosto di perderla? Che cosa fare per evitarlo? Il problema è enorme e ancora ben presente; attraversa le classi sociali, le culture, le nazionalità, l’educazione e l’istruzione. Per questo è necessario portarlo alla ribalta, ora come sempre.
La parola al comandante Claudio Grosso
Approfondiamo il tema con il comandante della Stazione dei Carabinieri di Alba, il luogotenente Claudio Grosso, 36 anni di esperienza nell’Arma, divenuto un punto di riferimento per quante hanno necessità di aiuto nell’Albese.
Perché nel 2025 c’è ancora tanta violenza maschile, comandante Grosso?
«La donna ha lottato per avere un posto nella società, mentre all’uomo è sempre stato riconosciuto di diritto. Il maschio si sente superiore in quanto tale e talvolta non accetta che la sua compagna si muova in un contesto paritario, mentre il timore di essere dominato lo porta alla violenza in varie forme. Chi arriva a tanto ha una personalità disturbata, che per esempio lo induce anche a offendere e minacciare pesantemente in caso di litigio».
I numeri della violenza di genere sono in incremento nell’Albese?
«Nel 2025, fino a inizio novembre, siamo arrivati a contare 69 casi denunciati, in aumento rispetto ai 54 di tutto l’anno precedente. Ma si tratta dell’emersione del fenomeno. Le vittime denunciano con maggiore fiducia grazie a una rete che da noi è molto forte e comprende le Forze dell’ordine, la Procura di Asti, il Consorzio socioassistenziale, l’ospedale di Verduno e le varie associazioni che operano in questo ambito».
Perché le donne sono ancora restie a denunciare?
«Hanno generalmente timore a parlarne. Sono annientate, sopraffatte dalla situazione, pensano di non farcela, di perdere la casa, i figli, il lavoro. Talvolta arrivano a subire maltrattamenti e soprusi infiniti per lungo tempo. Ma ho fiducia, le cose stanno cambiando. C’è maggiore consapevolezza. In otto anni ad Alba ho seguito oltre 230 casi, tutti risolti con arresto, divieto di avvicinamento, braccialetto elettronico o, talvolta, con la riappacificazione. Dobbiamo ringraziare il coraggio di queste persone, che con la loro forza ci permettono di aiutarle e tracciano la strada per le altre donne in difficoltà. Noi, Carabinieri, dobbiamo imparare a metterci in loro rispettoso ascolto».
Che cosa bisogna fare se si è vittima di violenza?
«Recandosi dai Carabinieri con fiducia la donna può raccontare la propria ansia, denunciando oppure no. Nella prima fase, abbiamo modo di iniziare con discrezione la sorveglianza della donna a casa, al lavoro, durante le uscite. Io sono solito lasciare anche il mio cellulare: può servire per uno sfogo anche di notte e crea empatia e fiducia. La vittima di violenza si sente in difetto, paradossalmente colpevole, e ha bisogno di qualcuno che l’ascolti, senza giudicarla».
Come si arriva alla violenza?
«Le faccio un esempio. Una donna può vivere momenti difficili per una separazione, un lutto o una depressione. In quel preciso periodo di fragilità, può essere avvicinata facilmente da una persona violenta, che dapprima cattura la sua fiducia con modi gentili per poi prendere il controllo della situazione e non mollare la presa. Il manipolatore è l’uomo che pare portare calore, comprendere, ma che gradualmente isola la sua “preda” dagli amici, dal lavoro, dai familiari per fare in modo che nessuno sospetti la perfidia che sta mettendo in atto. Spesso il maschio violento ha vissuto in famiglia una realtà non corretta dal punto di vista educativo o ha avuto un’infanzia in cui uno dei genitori subiva o era autore di soprusi. Quando poi la donna è rimasta isolata, inizia la violenza psicologica, che si trasforma spesso in fisica. C’è chi viene messa in ginocchio a lavare i pavimenti, chi è picchiata, chi violentata, denigrata o limitata nella sua libertà».
Si può chiedere aiuto senza denunciare: che cosa prevede la legge in questo momento?
«Le racconto il caso di una donna che subiva da due anni violenza sessuale, pestaggi, abbandoni, impedimento a uscire di casa. Ma non era pronta a denunciare. Appena è venuta da me, ho informato il procuratore di Asti. Dopo qualche tempo la vittima mi ha riferito che era stato picchiato anche suo fratello: a quel punto abbiamo redatto un verbale di testimonianza. In quella situazione siamo potuti intervenire senza querela, perché erano emersi reati d’ufficio. In poco tempo siamo riusciti ad arrestare l’uomo per violenza privata, mentre la vittima ha deciso di querelare. Il processo di primo grado ha portato a una condanna di 6 anni, il secondo a 12. Le donne non devono avere timore a raccontare: abbiamo una Magistratura molto attenta e leggi adeguate a tutelarle».
Dopo la denuncia, come si può evolvere la situazione?
«Quando una donna decide di esporre la sua vicenda di vessazioni, viene inserita in un sistema di protezione, insieme ai figli, se ne ha, e trasferita in un luogo segreto. Si inizia così un percorso che può includere il braccialetto elettronico (il dispositivo che avverte la vittima se l’uomo si avvicina). Personalmente ritengo che su questo fronte, nonostante, come ho detto, nel nostro Paese le buone norme esistano, si potrebbe ancora migliorare. Occorrerebbe piuttosto allontanare il persecutore, che dovrebbe essere seguito nell’immediato da uno specialista. Si tratta in genere di un maschio dominante con indole violenta, magari con problemi di gioco o di lavoro o con un’educazione sbagliata, che non gli permette di accettare il rispetto reciproco. La partner e i figli dovrebbero restare a casa loro, al sicuro».
Oggi come reagiscono i giovani alla violenza, comandante Grosso?
«In base a ciò che vediamo, il giovane non percepisce la violenza. Si estranea spesso dal problema. C’è anche da dire che le nuove coppie si mettono assieme e si separano più facilmente di prima e, se incontrano una crisi nel loro rapporto, combattono la loro guerra sui social, scatenando una violenza psicologica non meno grave di quella fisica. I nostri ragazzi tendono a non sentire il pericolo: se qualcuno dà loro qualche tipo di fastidio pensano di cavarsela da soli, fino ad arrivare a situazioni drammatiche, troppo spesso alla ribalta delle cronache. Invece,le persone, giovani o meno, che subiscono comportamenti non adeguati, non solo in famiglia, devono allarmarsi e chiedere aiuto. Tra l’altro, è importante ricordare che la segnalazione può essere sempre avviata da chiunque, familiari, amici o conoscenti, innescando una catena di azioni virtuose da parte degli organi preposti».
