Tartufo bianco: nel 2022 perso l’80 per cento delle produzioni

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ECOLOGIA Carlo Marenda è un trifolao albese fondatore, insieme al naturalista Edmondo Bonelli, di Save the truffle. La sua esperienza di ricerca si è consolidata nell’amicizia con lo storico cercatore Giuseppe Giamesio, il quale, alla sua morte, gli ha lasciato in eredità i suoi cani, insieme a idee e pensieri da trasmettere.

Con Carlo abbiamo fatto il punto sulla stagione, che tra Langa, Roero e Monferrato «è stata negativa, con un calo di produzione, in media, dell’ottanta per cento. Inoltre, non si è prolungata come si sperava: dopo la prima decade di gennaio, salvo rari casi, in Langa e Roero non si sono più trovati tartufi. La forte diminuzione è dovuta anche all’assenza di precipitazioni piovose e nevose tra la metà di dicembre 2021 e la fine di marzo 2022, al caldo estivo con pochi temporali e al prolungarsi del clima estivo, in particolare a settembre e in parte a ottobre. Pertanto, in alcuni areali, quelli meno umidi, i tartufi non si sono sviluppati. Purtroppo, non è il primo anno che accade».

Quali sono i problemi maggiori per il mondo che ruota attorno al tartufo?

«L’impossibilità di tutelare i boschi a vocazione tartufigena e, sicuramente, i cambiamenti climatici. Nel primo caso, l’unica strada possibile è presentare alla Regione Piemonte una domanda per gli indennizzi dati alle piante a vocazione tartufigena. Importante, poi, è sempre cercare il dialogo con il proprietario. Ci sono situazioni complesse da gestire, come le alberate lungo i piccoli corsi d’acqua o le distanze da mantenere dove vengono fatti nuovi vigneti o noccioleti. Sui cambiamenti climatici, il discorso è critico ed è piuttosto difficile fare ipotesi per il futuro».

Tartufo bianco: nel 2022 ha perso l’80 per cento delle produzioni
Carlo Marenda

Come si collegano le parole sostenibilità e tartufo?

«Per avere un tartufo ci vuole un albero, quindi è più semplice di quanto si pensi: occorre piantumare alberi a vocazione produttiva. Un gesto nobile rivolto al futuro. Dai pioppi nei fondovalle, alle querce nei pendii più ripidi per finire con i tigli nelle aree verdi urbane e nei giardini. Alle piantumazioni bisogna far seguire l’irrigazione, altrimenti difficilmente un albero giovane supera un’estate calda».

Il riconoscimento Unesco per cerca, cavatura, conoscenze e pratiche tradizionali ha portato vantaggi?

«Non c’è stata una maggiore attenzione da parte delle istituzioni e del mondo agricolo al prodotto tartufo, inteso come ambiente, storia e tradizione. Dovrà essere fatto un percorso didattico nelle scuole e organizzato un dialogo serio e credibile con tutti gli attori della filiera».

Come procede il progetto Save the truffle?

«Portiamo avanti i due filoni che lo costituiscono: quello ambientale e quello didattico. Nel primo caso diamo supporto tecnico per la manutenzione dei boschi, per redigere le domande per gli indennizzi, per le piantumazioni di alberi e la creazione di tartufaie. Le attività didattiche con i turisti sono il nostro punto di forza; lo stesso facciamo nelle scuole. Fedeli al nostro regolamento interno, destiniamo all’ambiente, cioè ai boschi, il 20 per cento degli utili. Da poco più di un anno, Marta Giamesio, nipote di Giuseppe, segue la comunicazione sui social e gestisce i contatti».

Desideri per il futuro?

«In questo momento, l’unica cosa che vorrei è una nevicata vecchio stile, per recuperare gli oltre 350 millimetri di precipitazioni che sono mancati nel 2022. Per il futuro abbiamo una proposta: gli ingressi al Mercato internazionale del tartufo nel cortile della Maddalena, durante la Fiera, sono stati oltre 80mila, ogni biglietto costa cinque euro. Se il cinque per cento della somma incassata fosse destinato all’acquisto di alberi a vocazione tartufigena, potremmo piantarne circa 400. Sarebbe la prima forma di sostenibilità e un fortissimo segnale verso tutte le persone che abitano questo territorio».

Davide Barile

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La strada per accrescere la presenza di piante tartufigene passa anche attraverso la tartuficoltura. Il vivaio Roagna di Govone ha battuto questa strada in tempi non sospetti. Spiega Pierfilippo Negro, nipote del fondatore Matteo: «Mio nonno, già negli anni Ottanta, collaborava con il Consiglio nazionale delle ricerche per produrre piante micorrizate. All’epoca le tecniche erano agli albori e mancavano alcune competenze scientifiche. Grazie a Edmondo Bonelli abbiamo ripreso questo discorso: dal 2017 produciamo piante micorrizate con tartufo nero estivo e pregiato, mentre, tre anni fa, abbiamo iniziato la produzione di piante micorrizate per il  tuber magnatum Pico. Ci occupiamo di tutti gli aspetti della tartuficoltura, dalla progettazione degli impianti di produzione alla messa a dimora. Abbiamo denominato il progetto “Terra vergine. Alla radice del tartufo”».

Quali sono le differenze nella produzione del tartufo nero rispetto a quello bianco?

«Per i tuberi neri tutto è molto più semplice, seguiamo esperienze già consolidate da decenni, soprattutto in centro Italia e nella Francia. Si usano le serre e la micorrizazione si ottiene inoculando, a contatto con le radici, la gleba del tartufo, dove ci sono le spore. Il controllo sul buon esito del processo  è effettuato dall’Università di Perugia a campione e gli esiti, positivi oppure negativi, sono estendibili all’intero lotto. Alla fine, le piante si vendono a circa quindici euro. Con il bianco, invece, le accortezze sono maggiori e il metodo è diverso. Servono condizioni particolari che noi ricreiamo in un ambiente completamente artificiale, sterile il più possibile per evitare contaminazioni con altre specie. Il locale è climatizzato, illuminato e l’umidità controllata. Ogni pianta è certificata, sempre dall’ateneo perugino, attraverso il prelievo di un tassello radicale dal quale, al microscopio, si capirà se ci sono effettivamente delle micorrize. Poi, su ognuna, si effettua il test del Dna per vedere se proprio di tuber magnatum si tratta. C’è una grande variabilità da una pianta all’altra: molto dipende dalla specie, ma lo scarto (cioè gli esemplari sui quali l’operazione non riesce, ndr) equivale in media a circa il trenta per cento del totale: il costo finale si aggira sui novanta euro Iva esclusa. Anni fa mancavano certificazioni di questo  tipo e ciò ha determinato  dei grandi problemi».

Cosa deve sapere chi vuole investire su una tartufaia di tuber magnatum?

«Il nero si coltiva da cinquant’anni e abbiamo dati più attendibili sulla produzione, che varia da quaranta a oltre cento chilogrammi per ettaro. Per il bianco ci basiamo, al momento, su dati empirici. Non sappiamo quando una tartufaia entrerà in produzione e quanti esemplari nasceranno. Ma, se la pianta è messa a dimora nei luoghi dove i tartufi crescono spontaneamente, non vedo perché il bianco dovrebbe comportarsi in modo diverso dal nero. Come tutte le coltivazioni agricole, il tuber deve trovare un ambiente favorevole e vanno effettuate potature, inoculi sporali e lavorazioni superficiali del terreno. Da queste ultime dipende lo sviluppo del tubero,  che per il suo sviluppo necessita di una buona ossigenazione: con un terreno soffice la sua forma sarà più regolare. L’irrigazione, se non eseguita nel modo  giusto, può dare problemi.  I sesti di impianto, infine,  sono ampi, ci vogliono  circa 150-170 piante  per ettaro, dato che  la loro vita è lunga  e crescono lentamente. La tartuficoltura permette il recupero di areali marginali di terreno senza altre destinazioni, ma richiede grande cura: abbandonare le piante al proprio destino è semplicemente fare del rimboschimento. Il bianco lo si incontra spesso in scarpate e colline meno dolci, zone poco favorevoli a coltivazioni di tipo tradizionale».

Perché puntare tanto sulla tartuficoltura?

«Può essere un buon investimento, utile per differenziare la proposta dell’azienda agricola. Ci sono le prospettive per un mercato amplissimo: con la coltivazione non potrà che fiorire. Temere un’eventuale diminuzione dei prezzi è fuori luogo, basti pensare al nero pregiato, il più coltivato al mondo: la Spagna è il primo produttore e traina il mercato, la richiesta è costante con la certezza di averne a disposizione. Siamo nel polo centrale del tartufo bianco e non possiamo permetterci di non produrlo più».  

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La stagione di ricerca del tartufo bianco, in Piemonte, termina il 31 gennaio. Non saranno questi ultimi giorni a salvare quello che, a settembre, il commerciante Andrea Rossano aveva predetto sarebbe stato l’annus horribilis. Lo stesso Rossano afferma, tornando sull’argomento: «Tutta la programmazione va ripensata, i tartufi eccellenti iniziano a essere disponibili quando finisce la Fiera di Alba e non al 21 settembre o all’8 ottobre. Inutile ostinarsi a cercare esemplari pieni di vermi o immaturi: se in Francia i turisti vanno a mangiare il tartufo nero pregiato in inverno, non vedo perché non possano fare lo stesso da noi con il bianco. Bisogna andare dietro alla natura, ma pare che i primi a non farlo siano gli organizzatori della stagione turistica».

Il commerciante punta il dito contro chi, «per lucrare, inizia a lamellare il tartufo immaturo ad agosto: è vergognoso, lo fanno anche alcuni cuochi stellati. Alba deve continuare a essere la capitale morale del tartufo, anche se quello albese quasi non esiste: lo fece diventare importante Giacomo Morra. Se lui fosse nato in Istria o in Toscana, la Fiera sarebbe altrove: la capitale delle Langhe è una denominazione botanica, non di origine. In centro Italia spingono per togliere la dicitura “Tartufo bianco di Alba o di Acqualagna” e inserire “Tartufo bianco pregiato”. Proporre prodotti scadenti durante la Fiera e farli pagare carissimi non farà altro che arrecare danno al nome di Alba». Se i prezzi sono arrivati fino a settecento euro l’ettogrammo e, ora, sono scesi a duecento, ci spiega un trifolao che vuole mantenere l’anonimato, «è solo grazie al prolungamento della stagione nel centro Italia, in particolare Emilia, Marche, Abruzzo e Molise. In quelle zone i ritrovamenti continuano, a discapito di un mercato fermo, come domanda, alle festività natalizie. Da noi, invece, quasi non ne sono stati trovati».

Il dibattito è aperto, anche sulla possibilità effettiva di tracciare il prodotto. Da Roma arriva il disegno di legge del senatore cuneese Giorgio Maria Bergesio, nel quale è contenuta la norma per «l’individuazione di un calendario per determinare l’esatto periodo di inizio raccolta e norma per salvaguardare le denominazioni di origine, come Tartufo bianco di Alba o di Acqualagna», ha detto il leghista, che aggiunge: «La cerca e cavatura del tartufo, prima ancora che patrimonio immateriale dell’umanità, è patrimonio del nostro Paese».  

Davide Barile

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