Il direttore risponde (23 ottobre)

«Sotto terra siamo tutti uguali…»

La morte, che prima o poi arriva improvvisa, ci rende tutti allo stesso livello. Perché ce lo dimentichiamo sempre? Ricordo quando si andava al cimitero, con già la neve alta per terra, tutti imbacuccati per il freddo pungente, raccolti silenziosamente in preghiera: i nostri morti ci apparivano, nitidi, con i ricordi vivi del nostro passato trascorso insieme a loro; qualche lacrima scendeva pure, ma li avevamo, soprattutto, nel nostro cuore. Se penso all’oggi, all’appena ieri, mi viene un brivido lungo la schiena: tutte le tombe, loculi, ecc. infiorati come non mai (troppe volte solo per questo giorno sacro) e poi, tutto lasciato lì ad appassire sino al prossimo anno! Qualche persona pia asporta, delicatamente, questi fiori marci e ne mette poi anche solo uno fresco; altri, vedendo, anche in questo giorno, qualcuno senza neanche un fiore, ne mette alcuni, per non dimenticare quelli “non ricordati”. Penso che i nostri morti li portiamo, in silenzio, nel cuore, per sempre e che bisogna rispettarli da vivi, amarli profondamente quando sono ancora su questa terra, non dopo! Per rispetto, io non vado mai a questa cerimonia fatta tutta di apparenze, di commenti, di sfoggio di nuovi vestiti, di curiosità per vedere «chi ha fatto meglio dell’altro», di chiacchiere che nulla hanno a che vedere con i defunti, impedendo a coloro che, invece, vorrebbero solo ascoltare la Messa, in assoluto silenzio e devozione piena di rispetto. In questo momento mi viene in mente la splendida poesia napoletana ’A livella, che, per chi non la conosce, dice in sostanza «sotto terra siamo tutti eguali, ricchi, poveri, emarginati…»: non è forse vero?

Lettera firmata, Alba

La celebre poesia di Antonio De Curtis, in arte Totò, esprime bene l’uguaglianza di tutti di fronte alla morte. Non importa se uno in vita è stato marchese o netturbino. Tuttavia il cristianesimo aggiunge qualcosa di essenziale: la fede nella risurrezione. Non a caso la stessa parola cimitero deriva dal greco e significa “dormitorio”. Per i cristiani infatti il luogo della sepoltura non è la meta definitiva, ma un luogo provvisorio, un addormentarsi nel Signore in attesa del mattino senza tramonto, la risurrezione finale. I cimiteri esprimono dunque la fede cristiana nella comunione dei santi, che la morte corporale non può annientare del tutto, perché Cristo è risorto. Come ha scritto qualche anno fa don Silvano Sirboni su Vita pastorale, «il cristiano è consapevole che il corpo è stato luogo dell’azione divina la quale nel Battesimo ha fatto della persona “il tempio dello Spirito Santo”. Ma con tutto ciò il cristiano non idolatra il corpo e la tomba come non idolatra i muri di una chiesa. Sovente i nostri cimiteri, specialmente in occasione del 2 novembre, diventano più un luogo per ostentare la vanità dei vivi che non il culto per i morti. Sovente il cimitero diventa il luogo per rimediare (troppo tardi!) ciò che si è trascurato in vita. L’amore cristiano verso i defunti si rivela, come insegna la liturgia, nella sobrietà e nell’evitare esagerazioni e sprechi. Il cristiano sa che i suoi morti vivono in quella comunione ecclesiale che va oltre la morte e che egli li incontra soprattutto quando celebra questa comunione attorno all’altare, in modo particolare in quell’Eucaristia che unisce il cielo alla terra. Il cristiano apprezza il linguaggio simbolico dei fiori, masa anche che il vero scambio di doni con i defunti si attua nella preghiera e nella carità».

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