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Il sottosegretario alla Giustizia Ferri: Due anni per decidere il destino del Tribunale di Alba

L’INTERVISTA A Grinzane, tra gli ospiti dell’Asta mondiale del tartufo, c’era anche Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia ed ex segretario generale di Magistratura indipendente, al quale abbiamo rivolto alcune domande.

sottosegretario-cosimo-ferriSottosegretario Ferri, visti i “numeri” del Tribunale di Alba, non crede sia stato un errore inserirlo tra quelli da chiudere? La sua soppressione garantirebbe davvero risparmi e benefici per lo Stato?
«La riforma deve rappresentare un punto di partenza per una migliore amministrazione dell’offerta di Giustizia. Non nascondo che la normativa sia perfettibile e infatti il Governo sta già lavorando per l’introduzione di miglioramenti. I criteri adottati per il varo del Decreto legge 155 del 2012, come avviene sempre nei casi di riforme “strutturali”, non potevano che essere quanto più obiettivi e generali possibili. Per questo motivo, è stata costituita presso il Ministero della Giustizia una Commissione per il monitoraggio degli impatti della soppressione degli uffici giudiziari nelle singole realtà locali, con lo specifico compito di affinare il sistema. Del resto, il Tribunale di Alba, rispetto ad altre realtà, ha ottenuto la proroga dei due anni per lo smaltimento dei procedimenti civili e ciò dimostra che la situazione di tale realtà e del relativo circondario sono state adeguatamente ponderate e tenute in considerazione dall’Amministrazione centrale».

Ad Alba si spera ancora in un decreto che possa salvare completamente il Tribunale. Un’ipotesi irrealistica oppure esistono reali possibilità di scongiurare la chiusura e magari riportare ad Alba la Procura?
«Non bisogna creare illusioni ai cittadini, ma occorre monitorare la situazione e capire, in questi due anni di proroga, se il mantenimento del Tribunale risulti più conveniente oppure debba rientrare nel complessivo disegno riorganizzativo. La Commissione per il monitoraggio è chiamata proprio a fare queste valutazioni e ha già iniziato una serie di incontri. A breve avremo una prima relazione che ci fornirà ipotesi più precise di deroga alla legge. Va inoltre ricordato che la Corte costituzionale dovrà esprimersi sulla richiesta avanzata da nove Consigli regionali di approvazione del quesito per sottoporre a referendum abrogativo la riforma nel suo complesso. Si tratta di un altro passaggio delicato e importante, che potrebbe aprire ulteriori scenari».

Alba è attenta alle questioni romane anche per quanto concerne la riforma carceraria, indispensabile per risolvere il problema del sovraffollamento (circa 65 mila detenuti rispetto una capienza massima di 48 mila persone) ed evitare le sanzioni europee. Crede che l’amnistia con indulto pensata dal Guardasigilli sia la miglior soluzione? Se non si dovesse riuscire a legiferare in tal senso, quali altre strade potreste percorrere?
«La Costituzione insegna che i provvedimenti di clemenza sono di prerogativa parlamentare. Rispetto a essi, dunque, come già affermato dal Ministro della Giustizia, il Governo non deve interferire. Ciò detto, sono convinto che la pena detentiva in carcere debba rappresentare sempre l’extrema ratio da applicare per i soli reati di elevato allarme sociale. Bisogna, quindi, ampliare lo spazio di applicazione delle misure alternative e riflettere poi, in modo davvero profondo e incisivo, sul regime di custodia cautelare che qualifica negativamente l’Italia in Europa. Secondo dati recenti del Consiglio d’Europa, in Italia quasi il 50 per cento dei detenuti è in carcere senza una sentenza di condanna definitiva, in Europa lo stesso dato è del 20 per cento. Allo stesso modo, nella nostra nazione sono in pochissimi a scontare misure alternative quando nel resto dei paesi comunitari, e soprattutto nel Regno Unito, i soggetti che vi sono sottoposti rappresentano la maggioranza del totale. In questa prospettiva il Governo sta lavorando bene e la recente legge sulle misure alternative alla pena rappresenta una evoluzione culturale utile anche a fronteggiare il sovraffollamento carcerario. Una ulteriore strada da percorrere è la depenalizzazione di alcuni reati che ingolfano la già sovraccarica macchina della giustizia. In molte ipotesi, la sanzione amministrativa o l’aver risarcito integralmente il danno rappresentano dei rimedi di gran lunga più dissuasivi. Non dimentichiamo mai che la pena deve rieducare il detenuto, reinserirlo nella società e insegnargli a convivere con gli altri, stimolando la riflessione del condannato sul disvalore del fatto commesso».

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22.500 detenuti, circa un terzo del totale, sono stranieri. Come si affronta la questione?
«Il problema della popolazione straniera detenuta in Italia è serio e va affrontato eseguendo fino in fondo gli accordi bilaterali che sono già stati sottoscritti con alcuni Paesi extra-Ue. Non è possibile che nel 2012 solo 131 detenuti stranieri siano stati trasferiti nel proprio paese di provenienza per scontare la pena. È chiaro che qualcosa non funziona e bisogna capire, quanto prima, dove e con che modalità intervenire, anche perché un investimento di risorse economiche in questa direzione significherebbe un importante sgravio in altre voci di spesa del bilancio dello Stato. Gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue sono però prerogativa della Commissione europea e per questo è auspicabile un intervento congiunto con Bruxelles, per spianare la strada all’Italia».

A proposito di stranieri, lei si è espresso a favore dell’abrogazione del reato di immigrazione clandestina (previsto dalla legge “Bossi-Fini”). È questo il punto di partenza per riconsiderare il concetto di immigrazione e per favorire l’integrazione degli stranieri?
«Mi preme chiarire che, in Italia, il reato di immigrazione clandestina non è punito con il carcere, ma con l’espulsione dell’irregolare e con una pena esclusivamente pecuniaria. In breve: gli stranieri irregolari non vanno in carcere solo per tale loro condizione, i 22.500 stranieri che sono in carcere, ci sono per altri motivi, non per il reato di immigrazione. Lo Stato celebra dunque centinaia di processi e condanna altrettanti irregolari a pagare una somma di denaro, sapendo, tuttavia, a priori, che non incasserà mai quei soldi. E come se, espellendo gli irregolari, li allontanassimo con un bollettino postale di una multa tra le mani. Si tratta solo di un pezzo di carta. Il problema, allora, è, da una parte, espellere gli irregolari e monitorare in modo più pregnante e severo i flussi migratori, nella cornice delle leggi umanitarie, dall’altra, evitare di celebrare dei processi inutili con un grandissimo dispiego di risorse economiche e di capitale umano. I magistrati che si occupano di casi del genere sanno bene che questo tipo di processi non sortisce alcun effetto repressivo, ma il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale impone ai Pubblici ministeri di reprimere il fatto di reato, con la consapevolezza di perdere tempo e risorse perché gli immigrati non pagheranno mai la pena pecuniaria, né possiedono beni da poter escutere. Occorrerebbe invece destinare maggiori risorse nei controlli: gli ingressi di immigrati clandestini devono essere limitati e regolati, le espulsioni devono essere eseguite in modo più efficace».

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Oltre alla condizione dei detenuti e degli immigrati, lei è attento al tema della disabilità, tanto che ha sostenuto un’iniziativa di solidarietà per aiutare i figli disabili dei detenuti. Ha anche presentato il progetto al Santo Padre. Che impressione le ha fatto papa Francesco?
«Papa Francesco, la cui famiglia ha origini piemontesi, è una persona che emana la forza interiore, la saggezza e la sicurezza di coloro che conoscono dove porta la strada dell’uomo. Trovo, da un lato, il suo rigore declinato con ferma semplicità e, dall’altro, la sua grande misericordia e carità per gli ultimi, due fonti di grande ispirazione personale. Come un padre che si fa carico dei problemi dei figli e soffre insieme a loro, ma nonostante tutto li incoraggia a trovare la forza di andare avanti, il Pontefice porta su di sé le sofferenze umane, le confessioni dei peccati dell’uomo, le piccole, grandi tragedie della vita quotidiana ma bacia le piaghe agli ammalati, celebra messa per migranti di religioni e nazionalità diverse, urla la necessità di lavoro insieme ai disoccupati, stimola la società a essere migliore e a essere quercia anche quando ciò vuol dire farsi giunco. Con il suo esempio, il Santo Padre insegna a non tirarsi mai indietro e a spendersi sempre per il solo spirito di contribuire allo sviluppo della società. Con la sua umiltà ammonisce a non lasciare indietro nessuno e con l’insegnamento della preghiera quotidiana esorta a riflettere su noi stessi e se tutto ciò che potevamo fare, prima del nuovo giorno, lo abbiamo compiuto con serietà. Una sua frase mi ha molto colpito ed è rimasta impressa nella mia mente: “Il vero potere è servizio, umiltà, amore”. Questi sono i valori che devono guidare il nostro percorso e che possono aiutare ciascuno di noi a dare il meglio di sé stesso. Cosa non facile, ma dobbiamo provarci. È solo così che si può cambiare, davvero».

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