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Teresio Asola e L’Alba dei miracoli

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INTERVISTA  L’aveva sfiorata più volte nei suoi precedenti due romanzi. Con il terzo Teresio Asola dedica un intero libro alla sua città, fin dal titolo: L’Alba dei miracoli (Edizioni ArabA Fenice). Cinquantacinque anni, trapiantato a Torino, ma con Alba e la Ferrero (la sua prima azienda) sempre nel cuore, Teresio Asola, ritorna alla dimensione memoriale, e in parte autobiografica, del primo romanzo Volevo vedere l’Africa del 2010, dopo il tuffo nella storia risorgimentale del secondo All’Orizzonte cantano le cascate (2013), con «Una storia vera di un bambino, di una città, di ottimismo, di segreti», come egli stesso l’ha definita.

alba dei miracoli

Asola ci parli della sua terza “fatica” editoriale.
«Il romanzo è una storia albese fino all’osso, raccontata attraverso gli occhi di un bambino nato negli anni Sessanta, ambientata in quei formidabili anni. Libro locale ma non solo: Alba e quel periodo storico sono paradigmi di coraggio, ingegno, capacità di guardare a orizzonti vasti senza piangersi addosso. E di sorridere, nonostante il ricordo ancora fresco della guerra. Alba è icona, come bene mi ha scritto Marisa Fenoglio, di un Piemonte serio e laborioso».

Si tratta di una storia vera?
«Vere sono le storie di L’Alba dei miracoli, nate nel teatro della famiglia in cui ognuno di noi cresce, sul cui palcoscenico si rappresenta la propria commedia. O tragedia. Rappresento, con benevola ironia e senza molta nostalgia, lo spettacolo, spesso comico, cui ho assistito da bambino. C’è molto di me in Crispino, chierichetto con scriminatura perfetta e farfallini a elastico, timido, allergico al calcio, al teatro e all’aritmetica ma con ambizioni da astronauta e tre fidanzate a loro insaputa. Accanto a Crispino una serie di personaggi in cui ogni albese potrà riconoscersi».

Ha detto più volte che questo è il romanzo degli albesi, conferma?
«L’Alba dei miracoli non è il mio ma il vostro romanzo: molti di voi si riconosceranno; voi albesi, o più semplicemente voi che siete stati adolescenti in questa come in altre cittadine in crescita o alla ricerca di soluzioni. Troverete episodi, persone o anche solo atmosfere che avevate dimenticato. Senza di voi questo libro non sarebbe mai nato. Vero che il bambino Crispino, protagonista, un po’ mi assomiglia come la sua famiglia alla mia, ma ognuno di voi leggendo il libro troverà un volto che un po’ vi somiglia, voci simili alla vostra o dei vostri padri, o amici, e strade e portici da voi calcati mille volte».
Quindi ha scritto L’Alba dei miracoli per gli albesi?
«Ho scritto il romanzo per i nostri figli, perché sappiano che dai momenti bui si esce, come noi dagli anni di piombo e i nostri padri dalle guerre. E i nostri padri ritroveranno sé stessi: respireranno quell’aria, ritroveranno amici, ambienti dimenticati, caratteri formidabili che hanno caratterizzato l’Alba di quegli anni: l’Alba dei miracoli. Per ritrovare, come ha scritto Corrado Augias nella risposta a un mio intervento su Repubblica, “i miracoli perduti”».

Lei si è riscoperto scrittore a cinquant’anni e con questo ultimo libro sembra aver raggiunto la definitiva maturità, quali sono i complimenti più belli che ha ricevuto?
«Qualcuno l’ha definito un libro spassoso. Volevo che lo fosse, anche. Perché quella vita un po’ lo era. Ma la più bella soddisfazione sono le telefonate di chi mi racconta di aver rivissuto, leggendo il libro, un pezzo della propria vita. E mi ha fatto piacere che uno scrittore per ragazzi come Roberto Piumini abbia scritto in prefazione “di racconti così amichevoli, civici, anti-narcisistici, ce ne fossero”. Ma vorrei fare una dedica a Gazzetta».

Al nostro giornale?
«Certo. Ha accolto i miei primi articoli, con Lamberto Schiatti, prima, e Francesco Tadone, poi. Quest’ultimo mi fece pubblicare anche un librino di poesie. Era l’inizio degli anni Ottanta, di giorno studiavo all’Università e svolgevo servizio civile in una comunità alloggio per bambini disagiati, la sera frequentavo la scuola di giornalismo e il sabato consegnavo i miei articoli. Scrivevo di avvenimenti culturali e recensioni letterarie, ho intervistato personaggi come Ermanno Olmi. Ho incominciato a scrivere per Gazzetta a vent’anni. Per questo da sempre è il “mio” giornale. Dedico dunque il mio libro anche a chi in Gazzetta ebbe fiducia di me concedendomi la possibilità di scrivere e coltivare una passione che non riesce proprio ad abbandonarmi».
Marcello Pasquero

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