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Nel registro del carcere ho ritrovato mia nonna

Nel registro del carcere ho ritrovato mia nonna 2

«Il destino – o, meglio, un servizio di Gazzetta – mi ha portata alla casa circondariale»

IL RACCONTO   Mia nonna aveva il mio stesso nome, Francesca. Di cognome faceva Albrito, come ce ne sono tanti a Corneliano. Il 2 febbraio del 1945 mancavano pochi mesi al suo trentesimo compleanno, non aveva ancora sposato mio nonno e abitava nella casa di famiglia lungo il torrente Riddone: un gruppo di repubblichini – le milizie della Repubblica di Salò, l’ultima incarnazione del fascismo – bussò con violenza alla sua porta.

Erano le sei di mattina e i cornelianesi si stavano preparando per le funzioni del primo venerdì del mese. Faceva freddo, per terra c’era la neve alta mezzo metro. Quando Francesca Albrito girò il chiavistello e si trovò sull’aia, sentì la canna di un fucile spingerle dritto sul petto. Le ordinarono di chiamare i suoi fratelli, che nel frattempo erano scappati dal retro. Allora, i giovani che aveva di fronte le dissero di indossare scarpe pesanti e la portarono con loro di casa in casa, alla ricerca di altre famiglie, tutte con il cognome iniziante in A o in B.

Nel registro del carcere ho ritrovato mia nonna 1

Fu tremendo. In totale, presero in ostaggio sette ragazze, una donna matura e qualche uomo: l’obiettivo del rastrellamento era trovare civili da scambiare con alcuni repubblichini creduti prigionieri dei partigiani. In fila indiana, a piedi, con le armi puntate contro e il gelo su tutto il corpo, le prigioniere partirono in direzione di Alba. Dopo tre giorni al seminario minore, il 5 febbraio furono sottoposte all’interrogatorio dei gerarchi Amleto Rossi e Gagliardo Gagliardi. Le accusarono di aver collaborato con il nemico e la sera stessa furono trasferite nel vecchio carcere, non lontano dalla chiesa di San Giuseppe.

Da quando sono stata abbastanza grande per comprendere, fino agli ultimi mesi di vita di mia nonna – è mancata nel 2011 –, ho ascoltato questo racconto un’infinità di volte. Ho visto i suoi piccoli occhi assumere d’improvviso un’espressione a metà tra la rabbia e la paura, ho sentito la sua voce farsi ancora più forte del solito, ho cercato di percepire la durezza delle sue parole. Non ci sono riuscita, almeno fino a un venerdì di qualche settimana fa, quando il destino – o meglio, un servizio – mi ha portata al carcere Giuseppe Montalto di Alba.

Grazie agli agenti della Polizia penitenziaria, ho così potuto visitare una piccola stanza non lontana dall’ingresso, che da poco è stata trasformata in museo. Ci sono le divise indossate dai detenuti e dalle guardie, una raccolta di oggetti di diverso tipo e testimonianze storiche della struttura precedente. In centro, un grande registro con la copertina rigida, che ho scoperto raccogliere i nominativi di tutte le persone incarcerate negli ultimi anni di guerra, alcuni con una croce a fianco, perché fucilati dai fascisti.

È stato così che, voltata una pagina, ho letto il nome di Francesca Albrito. Sotto ai suoi dati – il nome dei miei bisnonni, il suo indirizzo e le sue caratteristiche fisiche –, ho passato parecchi minuti a fissare la sua firma, identica a come la ricordavo sui documenti o sui biglietti d’auguri che mi faceva trovare, forse solo un po’ più scattante rispetto ai suoi anni maturi. Mi sono trovata ad accarezzare con la mia mano l’impronta della sua, che mi manca tanto, impressa sul registro con l’inchiostro nero al momento dell’ingresso in cella. In quell’istante, per la prima volta nella mia vita, sono andata oltre al racconto e ho dato uno spessore reale alle parole di mia nonna.

Francesca e le altre rimasero in carcere fino al 23 febbraio, per poi essere trasferite nella caserma Govone, dove restarono fino al 2 marzo. Pare che i repubblichini creduti prigionieri dei partigiani fossero fuggiti, facendo venir meno il bisogno di ostaggi per lo scambio. Per quel mese di prigionia, le donne di Corneliano condivisero un’unica cella, tra preghiere, minacce di essere fucilate, lettere e visite dei familiari.

Nel registro del carcere ho ritrovato mia nonna

Come quelle della mia prozia, Palmina, che in quel lontano ’45 aveva diciannove anni e oggi ne ha novantadue: «Quando l’ho vista allontanarsi dal paese, in fila con le altre, ho creduto di aver perso mia sorella per sempre», racconta. Il giorno in cui furono liberate, dal paese le andarono a prendere con un biroccio trainato da una mula. Le fecero scendere in piazza, dove tutti si erano riuniti per acclamarle e fare festa, sebbene la guerra non fosse ancora finita.

La Liberazione è arrivata poco più di un mese dopo, il paese e le sue persone sono rinate, ma i fatti di quell’inverno hanno continuato a essere presenti nelle menti di mia nonna e delle sue compaesane. Oggi queste donne non ci sono più, ma c’è un registro custodito con cura al Montalto, che parla di loro e di tante persone delle nostre colline. Forse altri figli o altri nipoti, come me, potranno trovarvi i nomi dei propri care e comprendere a fondo quello che fino a oggi è stato solo un racconto ripetuto da sempre, impresso nella mente, ma reso un po’ sbiadito dal tempo.

Francesca Pinaffo

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