Chi lavora in nero è sleale: parola di artigiano regolare

Chi lavora in nero è sleale: parola di artigiano regolare

ALBA Silvia ha trent’anni, è un’estetista e ha aperto da poco più di due anni il suo centro nell’Albese. Il percorso è iniziato dieci anni fa: prima gli studi a Torino e poi un lungo periodo da dipendente. Fino a quando ha deciso di fare il grande passo: mettersi in proprio, con tutte le difficoltà e i rischi connessi all’avvio di una nuova attività. «Dopo molta esperienza sul campo, mi sono sentita pronta per avviare la mia impresa. Aprire un centro estetico è una grande spesa, perché implica l’acquisto di attrezzature, oltre a pagare l’affitto di un locale non piccolo, dal momento che l’ideale è avere più cabine».

Silvia è soddisfatta dei risultati ottenuti, ma c’è un aspetto che le capita sempre più spesso di notare: «Avevo alcune amiche o conoscenti che venivano da me periodicamente, ma che poi hanno iniziato a ridurre i loro appuntamenti, fino a sparire. Un giorno una di loro mi ha detto che ha iniziato a rivolgersi a un’estetista a domicilio, che le risulta più comoda e che applica prezzi accessibili. Purtroppo nel nostro settore sono tante le estetiste, magari ancora alle prime armi, che lavorano in nero a casa o al domicilio delle clienti. Possono ridurre i prezzi, perché non hanno spese, se non quelle per i prodotti. La verità, però, è che tolgono clienti a chi, come me, ha esperienza alle spalle e paga le tasse».

I servizi per la persona, ma anche l’edilizia, i trasporti e la ristorazione: sono solo alcuni dei settori maggiormente esposti in Piemonte alla concorrenza sleale di “aziende fantasma”. Secondo il recente dossier sul lavoro sommerso elaborato dall’Ufficio studi di Confartigianato Piemonte, a partire da fonti dell’Istat e di Infocamere, sono 79mila le imprese artigiane piemontesi messe sotto attacco da concorrenti non in regola: è una percentuale molto alta, pari al 65,8 per cento delle imprese registrate alla Camera di commercio. Il tasso effettivo di lavoro non regolare in Piemonte raggiungerebbe così una proporzione dell’11 per cento, all’undicesimo posto della classifica nazionale.

Sempre secondo lo studio di Confartigianato, è Torino la provincia più interessata dal fenomeno, con 40.745 imprese artigiane pressate dalla concorrenza sleale. Segue Cuneo, con 11.618 imprese a rischio, Alessandria con 7.106, Novara con 6.114, Asti con 4mila, Biella con 3.286, Vercelli con 3mila e Verbania con 2.771. Riguardo ai settori, il più colpito è quello delle costruzioni, dove il sommerso concorre slealmente con 50.140 aziende artigiane. Seguono i servizi alla persona, cioè parrucchieri, estetiste e tutto ciò che riguarda il benessere (con 15mila aziende esposte), i trasporti e il magazzinaggio (6.702), l’alloggio e la ristorazione (3.400 imprese), i servizi di informazione e di comunicazione (mille imprese). Al di sotto della soglia delle mille imprese esposte, si collocano l’agricoltura e la pesca, l’autoriparazione e l’istruzione, a dimostrazione che nessuna professione può dirsi realmente esclusa.

La classifica è in linea con i dati relativi alla Granda: sulle 11.618 aziende esposte alla concorrenza sleale, 7.463 sono imprese edili, 2.380 riguardano il benessere della persona, 877 si occupano di trasporto, 344 di alloggio e ristorazione e le restanti sono divise tra gli altri settori. Se si amplia lo sguardo al quadro nazionale, i numeri parlano chiaro: secondo stime del 2015 l’economia sommersa avrebbe generato un valore aggiunto di 190 miliardi di euro, pari all’11,5 per cento del Pil, con un occupato indipendente non regolare ogni 5,7 in regola.

Francesca Pinaffo

Soffrono molto anche le autofficine

Quando si parla di lavoro sommerso, non bisogna pensare soltanto al lavoro nero, ma anche a posizioni che si pongono al margine. Come la situazione portata alla luce da Domenico Visca, presidente della sezione albese di Confartigianato e titolare di autofficina a Montà: «Nel nostro settore e proprio nella nostra zona, il lavoro sommerso non è una novità, con effetti negativi che ricadono sulle realtà regolari. La concorrenza sleale che subiamo proviene da autoriparatori titolari di partita Iva, quindi artigiani a tutti gli effetti, che però potrebbero fornire le loro prestazioni esclusivamente alle dipendenze di altre autofficine. Invece, quasi sempre lavorano in proprio, effettuando però le riparazioni a domicilio». Il problema è che queste persone «non rispettano la normativa sulla sicurezza, che è fondamentale, e non sono in regola nemmeno per quanto riguarda, ad esempio, lo smaltimento dei materiali di scarto, che spesso finiscono nell’ambiente». Evitando la tassazione e senza spese per il mantenimento di un’autofficina reale, «possono applicare  prezzi molto più bassi rispetto a chi lavora in regola: anche noi quindi per essere competitivi dobbiamo abbassare le nostre tariffe, con il rischio di non riuscire più ad arrivare a fine mese». Conclude Visca: «Se si guarda all’Albese, negli ultimi anni il numero delle autofficine è diminuito, non soltanto per la crisi ma anche per il problema del lavoro scorretto: se si prosegue su questa strada, almeno il trenta per cento delle attività ancora aperte sarà costretto a chiudere i battenti, già a partire dai prossimi anni».

f.p.

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