Anche ad Alba esistono baby gang da reinserire

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Non si tratta di gruppi criminali all’americana, ma di giovani che vandalizzano la città per trovare visibilità anche sul Web

ALBA Marco Bertoluzzo – giurista, criminologo e docente all’Università di Torino – è il direttore del consorzio socioassistenziale Alba, Langhe e Roero.

Che cosa sono le baby gang, direttore?

«Nella società americana dagli anni ’30 ai ’50 si svilupparono gruppi criminali organizzati che potremmo chiamare baby gang, caratterizzati da alcuni elementi come la presenza di un capo, l’esistenza di riti d’iniziazione e la messa in atto di reati funzionali al recupero di un bottino per scopi di sopravvivenza o di profitto. Queste gang indossavano segni di riconoscimento come i tatuaggi, divise specifiche o un preciso codice linguistico. Per i componenti, la banda era una famiglia sostitutiva di quella reale».

Anche ad Alba esiste qualcosa di simile?

«Ad Alba le gang assumono connotati differenti. Non si tratta di ragazzi marginali o deprivati socialmente; possono invece appartenere a nuclei ordinari. I reati sono esercitati perlopiù a scopi vandalici e il danno ai beni pubblici è temporaneo, ad esempio realizzato a scopo di visibilità o incremento del proprio status sociale all’interno del gruppo. Il danneggiamento assume quindi uno scopo “relazionale” piuttosto che rivendicativo o predatorio. Una volta terminata la malefatta, il gruppo si scioglie o si disperde, senza ritornare per forza a delinquere: è meno coeso rispetto alle vere baby gang. Infine, queste organizzazioni, che potremmo chiamare group delinquency, non sono strutturate in modo gerarchico e non hanno una sede».

Qual è il ruolo della tecnologia per questi gruppi?

«La tecnologia ha “atomizzato” le relazioni. Quando il gruppo commette atti illegali, la tecnologia interviene per rendere social l’“evento”, mettendo in rete il reato, una mossa che porta all’immediata identificazione».

I ragazzi si possono reintegrare nel tessuto sociale?

«Quando lavoravo a Torino le aggregazioni avevano forma simile a bande: lontano dalle famiglie, i ragazzi stavano in strada. L’eroina coincideva con l’innesco di circoli patologici, che poi portavano alla dissoluzione del gruppo. Quando non venivano isolati, ma ascoltati e integrati nella comunità, nel giro di qualche anno la banda di ragazzi si trasformava in una formazione meno problematica; se venivano ghettizzati avevano più probabilità di esercitare atti illegali. Serve dunque non lasciare luoghi scoperti, ma attraverso gli educatori di strada accompagnare i giovani nella loro vita all’esterno».

Dobbiamo quindi investire su strade e quartieri?

«Ricordo un ex allenatore di bob che a San Salvario, a Torino, organizzò delle “olimpiadi” per riabilitare e recuperare ragazzi altrimenti coinvolti in processi delinquenziali. Ebbe un successo enorme, perché seppe valorizzare la loro esperienza».

Matteo Viberti

Il gruppo che delinque può esprimere il profondo disagio degli adolescenti

“Il termine baby gang è stato nel tempo distorto a causa di una cultura cinematografica e giornalistica che ha fornito alla parola un’aura quasi eccitante. In alternativa, in alcuni il termine induce paura. Ma nessuna delle due interpretazioni è corretta. Dietro un atto di delinquenza giovanile si celano messaggi precisi, cioè un reale tentativo di raccontare la propria storia sperando che qualcuno sappia ascoltare.
Ad Alba l’ultima notizia risale a fine aprile, quando i giornali annunciavano la «cattura della baby gang» che scippava studenti e molestava alla stazione dei bus. Un linguaggio simile rischia tuttavia di non cogliere un fenomeno ben più complesso. Il contesto albese sembra abitato da group delinquency – come spieghiamo in queste pagine e nell’intervista a Marco Bertoluzzo –: oltre che trattarsi di gruppi saltuari e infrequenti (mentre la recente campagna elettorale ha fatto enfaticamente leva sulla sicurezza), sono un modo adolescenziale di comunicare un bisogno ed esprimere un disagio con radici lontane. Sovente l’atto illegale non indica una scelta intenzionale e deliberata (del tipo, commetto questo reato perché mi va di farlo), ma è invece il tentativo disponibile per alcuni giovani di gestire parti di sé profonde inascoltate o fraintese dagli adulti. In questa inchiesta parliamo con esperti e raccontiamo storie dalla “pancia” delle strade, vicende di chi ogni giorno opera distante dalle aziende o dai luoghi in cui “tutto funziona”.

m.v.

Quando un murales funziona da simbolo di un’integrazione possibile tra i giovani e gli abitanti del loro paese di Langa

“Ricordo bene gli anni Ottanta, quando tra i quartieri Santa Margherita e della Moretta regnava un’elevata conflittualità. Non si poteva camminare tranquillamente da un luogo all’altro: c’erano zone albesi molto difficili da attraversare. Ora in quegli spazi sorge una scuola media: un’area di disagio è stata trasformata in una delle più frequentate e sicure della nostra città».

Luca Anolli, responsabile dell’area minori per il consorzio socioassistenziale Alba, Langhe e Roero, racconta storie di una comunità in cambiamento, non esente dai pericoli della strada, che rischia ancora oggi di portare i più giovani lungo canali pericolosi e devianti.

«Non dobbiamo mai scordare che i gruppi “delinquenziali”, che vagano e creano fastidio alla vita cittadina, stanno comunicando un bisogno. Questo bisogno coincide sovente con la necessità di avere un modello adulto di riferimento. La possibilità di misurarsi con una figura esterna può costituire un importante terreno di costruzione dell’identità». E prosegue Anolli: «Uno dei gruppi con cui stiamo lavorando ha espresso questo concetto in modo magistrale. Si trattava di una “banda” da subito etichettata come realtà disturbante e problematica dalla comunità. Quando invece abbiamo aiutato i suoi componenti a far convergere le energie nella creazione di un murales a Rodello, uno di loro ha detto: «In questo modo loro (gli adulti, ndr) vedono che siamo capaci a fare anche altre cose, oltre a creare guai».

Siamo riusciti ad agganciare la loro voglia di protagonismo, mostrando che nel paese può esistere qualcosa di bello e anche valorizzante. Questo lavoro va eseguito sul territorio, a partire dai diversi contesti vissuti dai ragazzi. Uno dei temi principali da risolvere oggi riguarda l’abbandono scolastico, tra i più elevati nella regione. La richiesta di prestazioni e il ritiro sociale legato al disinteresse del nucleo familiare sono altri fattori predisponenti verso vissuti faticosi dal punto di vista sociale e relazionale».

m.v.

Qualche naso rotto e portafogli del tutto sgonfio

Roberto ha 45 anni, fa l’operaio e vive a San Cassiano. Racconta: «Negli anni intorno al 2000 ricordo una città differente da oggi. C’era innanzitutto la paura. Quando giravi per le strade se eri un ragazzino potevi imbatterti in quelle che noi chiamavamo “le bande”, gruppi di adolescenti che ti fermavano, provocando: se non stavi ai loro ordini potevano darti un pugno sul naso o rubarti il portafogli».

Continua Roberto: «Non erano mai atti delinquenziali veri e propri. Erano più logiche di strada e di ghetto, in cui vinceva la legge del “se hai paura, soccombi”. È stata la nostra palestra. Non volevamo rinunciare a uscire, perciò continuavamo a confrontarci con i nostri incubi e con quegli energumeni».

«Qualcuno è uscito con un naso rotto e qualche soldo in meno, ma eravamo tutti parte di una grande recita, di alleanze e squadre, di cospirazioni e battaglie che per nulla al mondo avremmo cambiato con quello che vediamo oggi: persone da sole, ognuno sulla propria panchina. Uscire nelle strade significava trasgredire per affrontare un mondo di imprevisti, mai pericolosi da farci male sul serio ma sufficienti a farci sentire vivi».

m.v.

Il nostro capitano che meditava sul Tanaro

Il racconto di Pietro, 55 anni, impiegato in una grande azienda, racconta spazi e storie dimenticate: «Un giorno con il mio gruppo di amici – eravamo sempre per strada – andammo al Tanaro. Era estate e il fiume scorreva impetuoso. Uno di noi si buttò, ma la corrente era forte e dovette afferrare una roccia e iniziare a urlare per non essere portato via. Un signore salvò il nostro amico, riportandolo a riva. Quel signore era solo, separato dalla moglie. Disse di chiamarlo “il capitano”.

Come noi, trascorreva molto tempo sulle panchine dei parchi di Alba e di fronte al fiume, per osservarne le fattezze. Iniziò a diventare la nostra mascotte: opposta per via anagrafica a quelle tradizionali, dato che noi avevamo 13 anni e lui oltre la quarantina.

In ogni caso, il nostro gruppo era temuto e rispettato da tutti grazie alla presenza adulta del “capitano”. Eravamo considerati gli eroi che salvavano le situazioni più disperate. Davanti alla stazione del terminal, quando arrivavamo, i gruppetti che infastidivano gli studenti più piccoli si dileguavano. Le ragazze non avevano paura di girare nei bagni da sole, perché con noi non dovevano temere: le avremmo protette. Un giorno il vecchio Roby – così si chiamava “il capitano” – dovette partire per Perugia. Non lo vedemmo più. Ancora oggi ci chiediamo se sia realmente esistito o se fosse stato solo un bellissimo e concreto sogno. Sulle strade, grazie a lui, ci siamo sentiti forti come supereroi».

m.v.

C’era la ragazza bella come il deserto in una piazza Cristo re senza aiuole

«Non ricordo il tappeto soffice della mia cameretta o il morbido cuscino prima di addormentarmi, né i regali scartati a Natale mentre la mamma prepara la cioccolata calda. Non ricordo lo schermo della televisione mandare i suoi baluginii azzurrognoli prima di addormentarmi sul divano, né la farina sul grembiule dei miei genitori. Ricordo invece il rumore spezzato della marmitta che transita vicino alla nostra panchina, ricordo il sole che sbatte sul porfido, lanciando luci diverse a ogni ora del giorno».

Così Mirella, 42 anni, oggi operatrice sociale, racconta la sua città.

E continua: «La mia infanzia si è giocata nelle intercapedini di cemento e tra grondaie, antenne, muretti. Nelle aiuole con le piscine blu – in seguito ricoperte dalla terra per scelta dell’Amministrazione – di piazza Cristo re, nei parchi da skateboard di Zona H e parco Tanaro. Non che i miei non mi volessero bene. Solo lavoravano troppo. Io e il mio gruppo di amici eravamo sempre in strada. Ci consideravamo avversari di un altro gruppo: loro erano i bianchi, noi i neri. Non so perché quei nomi. Tre volte scoppiò una rissa, c’erano bottiglie rotte e un dito spezzato, qualche punto al pronto soccorso.

Il quartiere si lamentava, aveva paura, ma per noi era un gioco. Non ci saremmo fatti male per davvero. Nella nostra disputa scoprimmo sentimenti come l’eroismo, la vergogna, l’ottimismo, l’entusiasmo e la delusione. Fu la nostra palestra. Lì diventammo uomini e donne. Poi arrivò Teresa, una ragazza “bella come il deserto”, come diceva il poeta del gruppo. Lei ci portò via quel sogno. Doveva portarlo via, perché i sogni finiscono: altrimenti sono allucinazioni. Teresa era talmente bella che i nostri leader andarono con lei, costituendo un altro gruppo. I nostri team si sfaldarono e tornammo a casa».

m.v.

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