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Alla Costituente Bubbio sostiene l’idea di Regione

Alla Costituente Bubbio sostiene l’idea di Regione
Teodoro Bubbio con il presidente Luigi Einaudi ad Alba il 13 novembre 1949

STORIA «Ancora una volta dichiariamo che non vogliamo approfondire il distacco fra il Nord e il Sud e che per non approfondirlo occorre, appunto, creare la Regione come strumento per cui gli interessi localistici possano essere fatti valere e trovare la loro attuazione»: parole che sembrano uscite da qualche dibattito politico dell’altro ieri, invece, dal giorno in cui Teodoro Bubbio, primo sindaco di Alba dopo la Liberazione, le pronunciò, sono passati più di settant’anni.

Il ruolo delle autonomie locali è meno recente di quanto non si pensi: è un problema vecchio almeno quanto l’Unità d’Italia. Quel 3 giugno 1947 però, quando il deputato albese prese la parola, davanti all’Assemblea costituente, la questione era radicalmente cambiata rispetto al Risorgimento. Vent’anni di dittatura fascista avevano mostrato il volto repressivo e brutale del centralismo: un rischio che i costituenti volevano evitare. L’esponente democristiano rivolse, quel giorno, un appello a tutte le forze politiche che intendessero «con la Regione attuare una riforma che abbatta l’accentramento da cui deriva ogni totalitarismo». Decentramento e democrazia vanno a braccetto nel suo intervento: lo Stato nasce dal basso, dai Comuni, «una delle forze più vive per l’affermazione della democrazia»; da realtà come la “sua” Alba, «che fin dal 900, nell’alta notte medievale, si eresse a libero Comune contro il Sacro romano impero».

All’architettura istituzionale del nuovo Stato repubblicano vennero dedicate grandi attenzioni: Meuccio Ruini, chiamato a guidare la Commissione dei settantacinque (il gruppo che scrisse la bozza della Costituzione), decise di affidare il nodo del decentramento a una Sottocommissione, la seconda, presieduta dal comunista Umberto Terracini. Trentotto deputati, fra cui il democristiano torinese Attilio Piccioni, scrissero gli articoli dal 114 al 133, meglio noti come Titolo V, che sarà poi riformato, con esiti discutibili, nel 2001. In poche parole, i principi che regolano i rapporti fra potere centrale ed enti periferici. L’approvazione dei testi richiese cinque mesi di discussioni: il 30 ottobre 1947 venne stilato un elenco di venti Regioni (Abruzzi e Molise rimasero, fino al 1963, una sola).

Nel dibattito, iniziato il 29 maggio, intervenne anche Teodoro Bubbio. Nelle sue parole, il decentramento è uno strumento per «creare una classe politica media degna delle antiche tradizioni, cui spetterà un gran compito per il cammino ascensionale del popolo».

Un’idea, la sua, che arriva dagli anni che precedono la Prima guerra mondiale: «Non ho incominciato a essere favorevole alla Regione né dalla data di iscrizione al Partito popolare prima e alla Democrazia cristiana poi o da quando nel 1920 e nel 1947 ne ho parlato da questi banchi». Risaliva al lontano 1906, alle undici ore e mezza di lavoro al giorno, senza riposi festivi, come impiegato alla stazione ferroviaria di Acqui.

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L’assemblea Costituente

L’esperienza con le leggi centraliste sabaude, fatta in qualità di segretario comunale a Mondovì, lo portarono a «constatare gli esiziali inconvenienti della centralizzazione totale e del soffocamento delle autonomie». Ereditato dal Partito popolare e dalla lezione di don Luigi Sturzo, che lo incluse nei dodici punti del Programma di Roma (gennaio 1919), il tema delle autonomie ricomparve, dopo un lungo silenzio, nel primo manifesto della Dc, le Idee ricostruttive, e trovò in Alcide De Gasperi un sostenitore.
Le libertà riconquistate e i principi dell’economista liberale Luigi Einaudi si uniscono nel regionalismo pensato da Teodoro Bubbio, «condizione essenziale per uscire dall’attuale marasma e dall’eccesso burocratico accentratore che ritarda e soffoca ogni iniziativa privata».

Il decentramento non può essere separato da una profonda revisione della burocrazia: «Non può oltre essere ammissibile che un abitante su 43, neonati e vegliardi compresi, sia alle dipendenze del Governo».

L’intento «non solo è portare il Governo alla porta degli amministrati col decentramento burocratico amministrativo», ma «porre gli amministrati al governo di sé medesimi con l’abolizione della legislazione unica e del fiscalismo uniforme con la diretta corrispondenza della norma alle esigenze particolari».

Non si tratta, tuttavia, di federalismo che, dice Bubbio, «mai è esistito se non come cogitazione storica e dottrinale»: l’unità conquistata nel Risorgimento non è in forse, «la Regione non dividerà gli italiani».
È un disegno che Teodoro Bubbio non vedrà attuato. Previste nel 1948, le Regioni rimasero lettera morta fino alla riforma amministrativa del 1970: l’ex deputato e senatore era morto cinque anni prima. Si dovette attendere addirittura il 1972 per la legge che stabiliva il trasferimento dei poteri ai nuovi enti. Fra questi anche il Piemonte che, «per tradizioni, lingua, costumi, interessi, natura, è, dopo le isole, la Regione più unitaria e più rispondente a quell’ideale».

Davide Gallesio

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