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Unione europea: ma davvero piccolo è bello?

BRUXELLES Abbiamo spesso l’impressione che nel mondo molte cose non funzionino, tanto sono grandi le diseguaglianze non solo tra i gruppi sociali all’interno dei singoli Paesi, ma anche tra Paesi e continenti. Difficile raffrontare grandezze come la Cina e l’India da una parte, con Stati Uniti e Unione Europea dall’altra, per limitarci a realtà la cui popolazione supera da una parte la soglia di oltre il miliardo di abitanti e di 350 milioni dall’altra, con economie che hanno volumi e ritmi di crescita molto divergenti.

Sono diseguaglianze difficili da governare, nella totale assenza di un regolatore pubblico comune, salvo non si voglia far finta di credere che possa farsene carico l’Onu o qualche altra organizzazione internazionale, come dovremmo aver capito dal ruolo effettivo svolto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel contrasto alla pandemia.

Ma poiché questo è il nostro mondo, in questo viviamo e, speriamo vivranno le generazioni future, allora meglio dedicarsi a limitare i danni in attesa di giorni migliori. È urgente provarlo a fare a proposito del nostro piccolo continente europeo e dell’ancor più piccola Unione Europea che ne fa parte.

Stiamo provando da settant’anni a progredire di dimensione, territoriale e demografica, con l’obiettivo di rafforzare le nostre economie, incrementare i commerci interni e consolidare una convivenza pacifica per una popolazione di quasi mezzo miliardo di persone con l’obiettivo di tenere il passo nel processo di globalizzazione di questi ultimi cinquant’anni.

La pandemia ha mostrato i limiti di questa globalizzazione e contemporaneamente i rischi di voler fare da soli. Di qui la tentazione di tornare a un mondo più piccolo, quello degli Stati nazionali sui quali è ricaduta la maggior parte di responsabilità nel contrastare la diffusione del virus e non senza successo.

Nella nostra Europa sono state messe a dura prova le strutture istituzionali dei poteri esistenti, nei rapporti tanto dello Stato con le regioni che con le istituzioni comunitarie e non sempre tutto ha funzionato. Normale quindi che vi sia qualcosa da rivedere alla luce dell’esperienza in corso, ma anche senza perdere memoria del passato, quando a non funzionare furono altre articolazioni del potere europeo con esiti molto più drammatici.

Abbiamo assistito alle penose tattiche del “capro espiatorio” che hanno individuato vittime facili nella lentezza dello Stato centrale e nell’atteggiamento di un ministro, doverosamente preoccupato per la salute pubblica, fino alle critiche concentrate sulle Istituzioni Ue, la Commissione europea e la sua presidente in particolare.

Si è trattato talvolta di rilievi fondati, meno soddisfacenti le piste proposte per ridurre i danni, qualcuna di queste anche inquietante. Come la tendenza a rinchiudersi in spazi sempre più piccoli, quasi una forma di lockdown applicato alle istituzioni pubbliche, quando invece sarebbe il momento di affrontare le aperture necessarie per non isolarsi nelle “piccole patrie”, regionali e statali, di un passato non proprio felice.

C’erano una volta la Svezia e il Parlamento europeo
Franco Chittolina, sociologo, ha lavorato per 25 anni nelle istituzioni europee

Su questo versante, una responsabilità importante spetta all’Unione Europea perché, nel rispetto delle sovranità nazionali, non rinunci alla sua missione di coordinamento e di governo collettivo, lavori a precisare le sue competenze, dotandosi delle risorse e degli strumenti necessari per sostenere le azioni nazionali, a loro volte impegnate a contrastare le spinte centrifughe degli enti locali, in Italia ma non solo.

Perché piccolo può sembrare bello e confortevole, ma grande è il pericolo – e l’inefficienza – delle “sovranità solitarie”, prima o poi esposte a conflitti reciproci, di cui non abbiamo bisogno. A convincerci dovrebbe bastare la globalità della pandemia dalla quale in Europa dovremmo aver capito che, muovendoci ciascuno in ordine sparso, non andiamo da nessuna parte.

Franco Chittolina

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