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Con Michele formulò il gusto della Nutella. Il ricordo di Francesco Rivella tramite le parole del figlio Enrico

Nel periodo del liceo classico Govone conobbe don Tablino, Pietro Chiodi e Beppe Fenoglio

Con Michele formulò il gusto della Nutella. Il ricordo di Francesco Rivella tramite le parole del figlio Enrico

IL RICORDO Nato l’8 agosto 1927 a Barbaresco, da Giovanni Rivella, postino e invalido a causa della Prima guerra mondiale e Marianna Gaja, bottegaia del piccolo negozio di paese, Francesco Rivella è morto lo scorso 14 febbraio all’età di 97 anni.

Era conosciuto a livello internazionale perché diede il suo contributo per costruire le basi identitarie dell’azienda dolciaria Ferrero e per realizzare prodotti come la Nutella collaborando a stretto contatto con il fondatore Michele.

Dopo qualche giorno dalla sua scomparsa ripercorriamo la sua storia attraverso le parole del figlio Enrico: «Era primogenito di tre fratelli, da bambino aiutava la famiglia a fare il pane, alimentava il forno a legna del pastino, pesava i carri agricoli sulla pesa pubblica e portava con la bici la posta nelle cascine sparse tra le colline della Langa».

Enrico descrive la Barbaresco dell’infanzia del padre come una terra già coltivata prevalentemente a vite, tutti avevano un pezzetto di vigna e producevano il vino in casa per la loro tavola, ma era una zona povera, senz’acqua, c’era solo una pozza nella piazza che raccoglieva quella piovana. La strada d’accesso fu asfaltata solo all’inizio del 1960.

«Nella cascina di famiglia mio padre sentiva le storie del paese e i racconti da cui apprendere le tecniche della coltivazione agricola e le basi della cultura materiale delle Langhe», dice Enrico.

Con grande sacrificio familiare Francesco Rivella studia al liceo classico Govone, allora privilegio solo delle classi più benestanti: «Qui stringe amicizie che dureranno per tutta la vita come con il missionario don Paolo Tablino e assiste alle lezioni di importanti professori come quelle di filosofia di Pietro Chiodi, maestro della scuola esistenzialista e traduttore di Heidegger. Al Govone conosce anche Beppe Fenoglio».

Prosegue il racconto: «Dopo l’8 settembre del 1943 Alba era diventata il centro della lotta partigiana. Francesco viene sorpreso da un rastrellamento e catturato. Viene messo nel gruppo dei prigionieri in attesa di una lezione o destinati alla deportazione in Germania, ma una suora che lo conosceva entra nel salone, gli molla due ceffoni sgridandolo severamente e riesce a sottrarlo ai militari».

Finita la guerra Francesco si iscrive alla facoltà di chimica dell’Università di Torino: «Vive con altri studenti nelle mansarde del centro di Torino spostandosi con i pezzi di legna nello zaino per scaldarsi. Viaggia in bicicletta da Barbaresco o su treni ghiacciati per le giornate particolarmente fredde di quel periodo rischiando anche l’assideramento delle mani». Insomma, un’esistenza avviata nelle difficoltà capace di sollecitare l’ingegno e la creatività.

Nel 1952 si laurea in chimica indirizzo organico-biologico e diventa il primo dottore del paese. In quei giorni da Barbaresco passa Giovanni Ferrero, spesso in paese per consegnare al negozio di alimentari la tavoletta spalmabile Gianduiot, e chiede al padre Giovanni dove fosse finito quel figlio universitario: avevano bisogno di un chimico per la fabbrica che si stava ingrandendo.

Francesco entra così nell’azienda dolciaria dove resta quarant’anni fino al 1993, seguendo tutte le fasi di evoluzione del gruppo: da laboratorio artigianale a livello industriale internazionale.

Rivella si occupa di analisi e controllo dei vari reparti, dalla preparazione delle materie prime grezze e della ricerca di nuovi prodotti, acquisendo esperienza e competenza diretta e pratica. Coniuga le conoscenze tecnologiche con le capacità pratiche nell’interpretare le dosi, le sfumature del gusto e conservare sapori di sostanze vive e sensibili al minimo mutamento, derivanti dall’osservazione e dall’esperienza maturata con le derrate alimentari prodotte in campagna. Negli anni non sono mancati i viaggi, le collaborazioni, i progetti.

Conclude il figlio Enrico: «La signorilità e la semplicità di uomo di campagna gli facevano abbattere qualunque barriera culturale e distanza sociale con l’interlocutore. Negli ultimi mesi una frattura l’aveva immobilizzato a letto e non riusciva più a sollevarsi se non con grande sforzo, ma l’occhio vigile, il sorriso e l’appetito non è mai venuto a mancare. Si è spento serenamente nella sua casa, la sera del 14 febbraio 2025, a san Valentino. Ora riposa in pace nel cimitero di Barbaresco accanto alla sua Margherita».

 Stefano Mo

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