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Abitare il piemontese: la parola di questa settimana è Ràpa (graspo, grappolo d’uva)

Nella galassia Moscato si cerca una rotta sicura

ABITARE IL PIEMONTESE Terminata la vendemmia per tutte le varietà di uve, mi piace esaminare la parola ràpa. È vero, da qualche parte si usa anche la versione maschile ràp, ma sempre della stessa cosa si tratta, ovvero il grappolo d’uva. In realtà la ràpa è il graspo o, meglio ancora, la massa di graspi pigiati. Successivamente diventa tutto il grappolo, comprensivo di graspo e acini. C’è un antico indovinello, divertente e ovvio, spesso proposto ai bambini per farli indovinare: Se t’andovin-i lò che ȓ’heu ‘n man, tno rigàl na bela ràpa! (se indovini che cos’ho in mano, te ne regalo un bel grappolo).

Il Repertorio etimologico piemontese suggerisce che l’etimo remoto di ràpa è il germanico rapon (scegliere, togliere, afferrare, strappare), entrato nelle lingue romanze dopo la seconda mutazione (la rappa dell’uva che resta nel torchio). La ricorrenza di San Martino dell’11 novembre, oltre a ricordarci la data di scadenza dei contratti agricoli di mezzadria piemontese, è anche il periodo in cui i mezzadri stessi (e non solo), prima di lasciare le cascine, tornavano nelle campagne sottraendo quel poco-niente che non era stato raccolto. Tra queste materie prime vi sono quei grappoli tardivi più piccoli nella parte alta dei tralci, i cosiddetti ràp ‘d San Martin o più semplicemente rapoj. L’operazione di raccogliere, racimolare, raspollare quei grappolini tardivi, si descrive con il verbo rapojé o rapolé.

Con quei grappoli si faceva un vino leggero da consumare in casa, vino dalle infinite nomenclature: rapacȓuva, acquëtta, picheta, piciora, posca, vin cit… Gli ingredienti erano semplicemente rapa, rapoj e acqua a volontà. Chissà perché c’è poi quel modo di dire che indica scarsa qualità tipicamente piemontese: passà ‘n sla ràpa; letteralmente significa passato sul graspo o sul grappolo, sinonimo di approssimazione o comunque di qualità scadente. In effetti il vino fatto passare (pigiato) con il graspo, non può essere un granché. Se c’è un motto per ogni lavoro, quello dei viticultori è: Son j’asinej ch’i fan ëȓ vin, nen ëȓ rape (sono gli acini a fare il vino, non i grappoli). Per questo, durante la vendemmia, si viene spesso esortati a raccogliere anche gli acini caduti ai piedi della vite. Regole di chi ha vissuto tempi impietosi.

Paolo Tibaldi

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