PENSIERO PER DOMENICA – CORPUS DOMINI – 2 GIUGNO
È impegnativo spiegare la festa del Corpus Domini, nata in Belgio nel 1246, su ispirazione d’una suora ed estesa alla Chiesa da Urbano IV dopo il miracolo di Orvieto (1264). Nel mondo cattolico ha avuto fortuna come festa di popolo, anche civile. Fino a qualche decennio fa, posta prima delle elezioni, sarebbe stata la passerella dei candidati. Oggi, per fortuna, prevale il significato religioso e spirituale, come nelle letture liturgiche.

La fede ha bisogno di visibilità. Il cuore della fede ebraico-cristiana è il legame d’amore tra Dio e l’uomo. Che, come l’unione tra l’uomo e la donna, si gioca nell’interiorità, ma implica anche momenti di visibilità. Nella prima lettura (Es 24,3-8) troviamo la celebrazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, dopo la liberazione dalla schiavitù. Il rito riflette la cultura del tempo: macellazione di animali, spargimento del sangue sulla pietra che funge da altare, poi il pasto in comune, per sancire la promessa solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Partecipare alla processione del Corpus Domini è prendere pubblicamente un impegno del genere!
Il legame di Gesù con noi continua. Il riferimento all’Ultima cena è d’obbligo parlando di Eucaristia. Quest’anno ascoltiamo il racconto di Marco (14,12-26). La festa è stata voluta e organizzata da Gesù, che ha addirittura “prenotato” la stanza. Anche qui, il pasto in comune esprime il legame interiore che si era realizzato negli anni di vita pubblica di Gesù. È bello pensare che la nostra scelta di partecipare alla celebrazione eucaristica e alla successiva processione non è tanto un’iniziativa nostra, ma la risposta a un invito di Gesù. Un invito non è un obbligo: Gesù non forza la nostra libertà, ma, come chiunque fa un invito, è contento se noi lo accettiamo.
ANNO DELLA PREGHIERA – 18. Il Corpus Domini richiama la preghiera di adorazione, forma impegnativa, di impronta monastica, proposta a tutti. Alla base c’è l’ascolto della Parola. Vale anche per Dio quello che è la base della relazione interpersonale: il vero salto in profondità è l’ascolto dell’altro, il confronto tra la propria coscienza e le ragioni dell’altro. Poi, come insegnano i maestri di spiritualità, si può andare oltre. Diceva don Gasparino: «Fare adorazione è mettersi con semplicità davanti a Dio, in un profondo silenzio interiore, lasciando da parte parole, pensieri, immaginazione, aprendo a lui l’intimo più profondo del nostro essere e sforzandoci solo di amare». Sarà la vita a dire se la nostra preghiera è stata vera.
Lidia e Battista Galvagno
