Dopo il giro di vite del Governo, l’accanimento mediatico di taluni, gli sforzi congiunti (autorità, magistratura, manifestanti pacifici) per arrestare i giovani che a Roma, il 15 ottobre, si sono scontrati con le Forze dell’ordine, è accaduto l’indesiderabile. Le ragioni e i sentimenti della prima protesta su scala mondiale (quasi mille città mobilitate in contemporanea) sono stati relegati nel dimenticatoio.
C’erano anche parecchi albesi a Roma. Racconta Zeno Foderaro, coordinatore albese dei giovani dell’Italia dei valori:«Da Alba eravamo una ventina, insieme ad altri giovani di Asti e Cuneo. Tutti pronti a manifestare pacificamente la propria indignazione per un sistema economicofinanziario che sta portando alla distruzione dei diritti e della dignità delle persone. Insieme a noi erano presenti svariati gruppi, dal “popolo viola” alle unioni sindacali di base, a gruppi politici non rappresentati in Parlamento. Pochi ma ben armati invece erano quelli che, noncuranti delle motivazioni e della rabbia pacifica della maggioranza, hanno rovinato la manifestazione. I media hanno trasmesso le immagini più forti, auto bruciate e vetrine di banche distrutte. Ma vogliamo credere che tutto ciò rappresentasse l’intento della stragrande maggioranza? Assolutamente, no! Il 15 ottobre è stata una data memorabile, più di seicentomila persone che sfilavano per gli stessi obiettivi.
“Noi siamo quelli che non si arrendono mai”, era il grido di molti a Roma. È questo che dobbiamo esaltare! Un fiume di giovani vogliosi di cambiare il Paese, che questa classe dirigente sta portando allo sfascio».
Servendoci di una recente fotografia (il rapporto Caritas- Zancan illustrato lo scorso 17 ottobre), scoviamo – numeri alla mano – i presupposti alla base della rabbia delmovimento “indignato”. A livello nazionale, nel 2010 ammontano a 8 milioni e 272 mila le persone considerate povere in Italia (13,8 per cento del totale), contro i 7 milioni e 810 mila del 2009 (13,1 per cento). In particolare, Caritas parla di una nuova categoria sociale, con una precisa e inedita identità. Si tratta dei cosiddetti “nuovi poveri” ossia persone che hanno una dimora stabile, sono in possesso di un lavoro e vivono all’interno di un nucleo familiare. Al calderone delle emergenze aggiungiamo il dato della disoccupazione giovanile (15-24 anni): la percentuale si aggira quasi a quota 30 per cento. Senza dimenticare che, tra i ragazzi nella fascia compresa tra i 25 e i 29 anni, il 25 per cento non ha mai affrontato una sola esperienza lavorativa. Secondo i centri di ascolto della Caritas, infine, il 20 per cento degli individui che cercano aiuto ha meno di 35 anni. Una cifra che è aumentata del 60 per cento in cinque anni, tra il 2005 e il 2010.
Emerge cioè un gruppo nato e coltivato dal brodo velenoso della recessione economica. Gente non indigente, non povera in apparenza. Ma schiacciata dalle urgenze, braccata dal rischio di non farcela e da un avvenire incerto. Era questo il vero volto del corteo degli “indignati” a Roma, al di là delle strumentalizzazioni politiche e mediatiche. Questi sono i “nuovi poveri”: vittime che conoscono le ragioni della loro condizione. L’establishment però comincia a essere contraddetto proprio da loro. E l’indignazione di oggi potrebbe incarnare il primo anello di una più ampia catena di reazioni. Come avverte anche Famiglia Cristiana, che ha dedicato l’editoriale a «una generazione abbandonata al suo destino», scrivendo: «La precarietà giovanile non preoccupa nessuno. Non è la priorità delle priorità nell’agenda dei politici, che pensano solo a “galleggiare”. Tutti dovremmo sentirci indignados con i giovani».
Matteo Viberti