Simone Cristicchi porta al Politeama – domenica 4 marzo alle 21 – Li romani in Russia, il suo nuovo spettacolo, diretto da Alessandro Benvenuti. Tratto dal poema di Elia Marcelli, racconta la guerra sul fronte russo con la voce di chi combatté con la divisione Torino. Per quasi un’ora e mezza sul palco braidese il cantautore – ha vinto il Festival di Sanremo nel 2007 – scrittore e attore Simone Cristicchi sarà da solo.
Qual è il filo conduttore della sua attività artistica?
«La ricerca di storie, così che mi piace definirmi “ricercautore”: i miei spettacoli provengono dalla ricerca che faccio sulle fonti. Come il mio nuovo libro Mio nonno è morto in guerra, una serie di racconti del secondo conflitto mondiale frutto di interviste ad anziani di tutta Italia, anche piemontesi. Il filo conduttore è la memoria, intesa come strumento per capire la realtà: mi sento un po’ un discendente dei vecchi cantastorie che andavano di paese in paese a raccontare le gesta degli eroi; qui gli eroi sono un piccolo plotone di soldati semplici della divisione Torino».
Com’è nato l’interesse per questi temi?
«Mio nonno Rinaldo tornò dalla Russia: lui ha sempre raccontato molto della sua vita, ma non ha mai voluto affrontare questo discorso in famiglia, si è chiuso in un mutismo su questo argomento. Da lì è nata la curiosità di cercare la sua storia. Ho letto tanti libri, molti parlavano del corpo degli Alpini, delle divisioni Iulia e Tridentina, le più famose. Mio nonno invece faceva parte della divisione Torino, che partì da Roma, con soldati del Centro e del Sud d’Italia, e su questa non c’erano grandi testimonianze scritte. Ho scoperto così il testo di Elia Marcelli, che era stato suo commilitone. Il poema in versi romaneschi è in ottava classica, come i poemi cavallereschi».
È stato difficile portare sul palco un testo tanto particolare?
«La cosa più difficile è stata reggere per un’ora e venti – è questa la durata dello spettacolo – l’ottava, una metrica rigida e cantilenante: il lavoro è stato quello di renderla narrativa e discorsiva. Manel poema, prima di tutto ci sono tanti personaggi, e mi sono divertito a interpretarli, cambiando voce e mimica, e ci sono dei dialoghi che spezzano la narrazione, ciò che ha reso possibile quella che chiamo la “cura anti sbadiglio”.
Quando uno va a vedere un monologo a teatro in genere parte preoccupato, ma in questo caso si assiste a qualcosa di unico nel suo genere: al di là del fatto che sia io a interpretarlo, è il racconto di una vicenda storica con una metrica antica, cosa che lo rende originale rispetto a tanti spettacoli del teatro civile. Ciò che mi interessa è divulgare un capolavoro della letteratura civile poco conosciuto».
Lo spettacolo è stato presentato anche in Russia: com’è andata?
«È stata la prima replica dopo la fine delle prove. Mi è arrivata un’e-mail dall’Istituto italiano di cultura a Mosca che mi invitava a rappresentare Li romani in Russia al festival Solo, un festival internazionale del monologo: un esordio straordinario. Era la prima volta in settant’anni che si raccontava quella storia, e l’evento è stato seguito inmodoeccezionale dai media: c’erano i loro Tg1 e poi giornalisti, professori, una platea attenta e partecipe di 600 persone che ha seguito lo spettacolo con una traduzione simultanea in cuffia dal romanesco al russo, una cosa complessa».
Quali sono i suoi prossimi progetti?
«È stato il pubblico a decidere che avrei dovuto continuare con l’attività teatrale; altrimenti, se avessi ricevuto poco entusiasmo con questa prima rappresentazione, avrei lasciato perdere per tornare alla musica. Invece è in programma una tournée con 60 repliche. Così la musica diventa il prossimo progetto: dopo aver fatto l’attore tornerò a scrivere canzoni. Ma c’è in programma anche un altro debutto in teatro: metterò in scena un lavoro più divertente ambientato in una famiglia nel mondo di oggi. Bisogna però dire che anche in Li romani la prima parte è divertente, non è uno spettacolo tragico dall’inizio alla fine, altrimenti non l’avrei fatto: ci sono grandi parti di me, l’ironia, il sarcasmo, maanche la commozione nei momenti più drammatici».
La crisi si sente anche per voi artisti?
«Soprattutto in teatro: quando il costo del biglietto è alto nei teatri grandi il pubblico fatica a venire. Sono fortunato, perché riesco quasi sempre a riempirli, ma il primo taglio che le persone fanno quando c’è la crisi è sulla cultura, che è ancora considerata un bene di lusso. La cosa che mi dispiace di più è il calo vertiginoso degli abbonamenti: speriamo di riuscire a ricreare un interesse per il teatro soprattutto nei giovani, perché senza un ricambio generazionale negli spettatori il teatro va a morire».
Adriana Riccomagno
Foto Ansa