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«Quante bugie sull’F35»

Don Renato Sacco (nella foto), di Pax Christi, è stato invitato ad Alba – venerdì scorso in sala Beppe Fenoglio – dall’Ufficio della pace per parlare degli aerei F35, una spesa militare che l’Italia sostiene. Don Renato abita a Cameri, sede di una base dell’Aeronautica. Nel piccolo centro del novarese sarà costruito il centro di assemblaggio e manutenzione dei nuovi cacciabombardieri.La protesta pacifista contro l’aereo militare proseguirà sabato 25 febbraio, dalle 16.30 alle 18 in via Maestra, con una manifestazione silenziosa – con cartelli, striscioni e materiale informativo – organizzata dai volontari dell’Ufficio della pace. Il titolo è Taglia le ali alle armi.

Don Renato, lei è stato invitato ad Alba per parlare degli F35. Qual è la sua posizione?

«L’Italia finanzia la guerra con moltissime risorse sottraendole alle politiche sociali maanche a quelle amministrative. Seguendo la logica della guerra, il nemico è chi uccide i propri connazionali. Ebbene in questo momento ne sta uccidendo di più il freddo. Il freddo allora è un nostro nemico: destiniamo più risorse agli spazzaneve. La Costituzione dice di difendere la patria ma non per forza con le armi. Anzi, l’articolo 11 dice chiaramente che l’Italia “ripudia la guerra”».

Una contraddizione.

«Sì, perché l’Italia ha deciso di contribuire con 15 miliardi – poi ridotti, vedi box a fianco – per la costruzione di questi aerei e ognuno di loro ci costerà 151 milioni di euro. La ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto richiedeva 12 miliardi. Avremmo potuto trovarli».

Perché l’Italia destina tutti questi soldi alle armi e alla guerra?

«La vendita delle armi è un business. Io mi chiedo: le guerre che sono state fatte finora hanno portato dignità ai civili? La risposta è no. In Afghanistan l’Italia spende due milioni di euro al giorno per 4.000 soldati, ma a Kabul l’energia c’è per tre ore al giorno, ci sono le fogne a cielo aperto, migliaia di profughi, non ci sono medicine e c’è una mortalità infantile spaventosa. Allora, dove sono finiti quei soldi? Acosa è servito spendere due milioni al giorno? La verità è che la guerra segue le regole del mercato. Noi favoriamo la guerra per vendere le armi che fabbrichiamo, favoriamo il conflitto per far girare l’economia. E le armi si vendono per essere usate. Ad esempio, abbiamo ceduto armi alla Libia l’anno prima che scoppiassero le rivolte. È una logica di mercato che in Italia funziona bene, dal momento che il settore è cresciuto del 50 per cento dal 2001 a oggi».

Le istituzioni dicono che l’Italia non può togliersi dal programma F35 altrimenti incapperebbe in penali insostenibili.

«È una bugia. Dati alla mano, non c’è nessuna penale da pagare se ci togliessimo dal programma. Già altre nazioni – Australia, Olanda, Danimarca, Norvegia – hanno optato per questa scelta onde evitare il fallimento. Un’altra enorme bugia è quella legata all’occupazione. Il sindaco di Cameri ha detto pubblicamente che “io devo pensare prima a favorire l’occupazione, dal momento che sono stati promessi diecimila posti di lavoro, e poi pensare all’etica”. Ma, secondo dati in mio possesso, il settore militare è quello che crea meno posti di lavoro: più aumentano gli investimenti e più diminuisce l’occupazione. Dal ’93 a oggi sono stati tagliati 750 mila posti di lavoro. Prova ne è che per ora, di quelle diecimila posizioni millantate, ne sono state sottoscritte tre, la migliore delle quali con un contratto a tempo determinato per tre mesi a mille euro al mese. Lo ha detto recentemente anche il generale Claudio Debertolis, segretario generale del Ministero della difesa, che la costruzione di F35 non darà ulteriori posti di lavoro. Tra l’altro abbiamo visto che il Ministero della difesa in Afghanistan vuole dimezzare il numero di soldati per inviare più mezzi: questo è significativo. Quella dei mezzi tra l’altro rispecchia un’altra contraddizione: ad esempio, il nostro attuale Assessore regionale alla sanità è stato amministratore di Iveco che costruisce i Lince. Proprio quella sanità che viene tagliata, fatta a pezzi per mancanza di risorse».

Ma fare la guerra significa sedersi al tavolo dei potenti.

«Sì, è diventata una questione di prestigio. Ma la guerra non è quella cosa che si fa da qui con persone sedute al tavolo a firmare accordi in un ambiente asettico. Bisogna riportare all’attenzione la dimensione umana del conflitto, vedere sul campo quello che succede perché la guerra è fatta di morti, di carne che si stacca e di odore di sangue, di disperazione. Il rischio che dietro tutto questo ci sia una lobby delle armi, che le armi siano il motore dell’economia, fa nascere una domanda: si fanno le armi perché c’è la guerra, oppure si fa la guerra perché ci sono le armi?».

Maurizio Bongioanni

Foto Ansa, Siccardi

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