Beppe Fenoglio a 50 anni dalla morte

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«Ci sarà sempre un racconto che vorrò fare ancora,ma ci sarà anche il giorno che non potrò più vivere»

Quando morì, il 18 febbraio 1963, per un cancro ai polmoni diagnosticato fuori tempo massimo, Beppe Fenoglio non aveva ancora compiuto 41 anni, e fu salutato dal mondo delle lettere come una «speranza» spezzata, una sicura promessa che solo un destino avverso non aveva reso possibile mantenere. Alcuni critici espressero il proprio rammarico per non aver prestato a Fenoglio, vivente, una maggiore attenzione; altri controbilanciarono, forse inconsciamente, il rincrescimento con la distanza che lo scrittore di Alba manteneva rispetto alla ribalta culturale. Cominciava così a prodursi, nelle cronache letterarie dei grandi quotidiani (fino ad allora avari di attenzione), il ritratto di un Fenoglio schivo e riservato, un «dilettante» quasi ostile ai professionisti della letteratura. Dei tre libri che aveva pubblicato, si considerava generalmente il secondo (La malora) come il suo miglior esito, grazie alla invocazione finale della madre di Agostino, che tranquillizzava i lettori preoccupati di non rintracciare un cuore pietoso e una qualche traccia di spiritualità nella sua rappresentazione “aspra” della vita. Anche in virtù dell’ambientazione contadina di questo romanzo breve, molto poi si ricamava su una sua piemontesità, e su una sostanziale discendenza, seppure con qualche scarto personale, da Cesare Pavese, all’epoca una “presenza” ineludibile, e in fondo una gigantesca zavorra. Vi fu persino chi calcolò che i due «scrittori delle Langhe » erano scomparsi (tragicamente, per quanto in situazioni ben diverse) suppergiù alla stessa giovane età…

Passarono poco più di due mesi, e uscì Ungiorno di fuoco, la raccolta (ibrida) che l’editore Garzanti allestì facendo valere di fronte all’Einaudi il suo diritto in merito agli inediti di Fenoglio. Il libro puntava, nel titolo, su un racconto straordinario, talmente bello che era già stato antologizzato vivente il suo autore (che però non ebbe il piacere di ricevere una copia omaggio dell’antologia; né decise di comprarsela, per quanto ne sappiamo); e tuttavia conteneva anche un romanzo, quello cui Fenoglio si sapeva stava ultimamente lavorando e che fu presentato (incompiuto, eppure misteriosamente compiuto) con il titolo Una questione privata. Fu questo romanzo che cominciò lentamente a imporre Fenoglio, al di sopra della piemontesità, di Pavese e di tutti i cliché che mascheravano una considerazione ancora frettolosa, emotiva, schematica. È sempre molto citato il giudizio altissimo che il suo quasi coetaneo Italo Calvino espresse l’anno successivo, nella prefazione alla riedizione del «suo» romanzo resistenziale, Il sentiero dei nidi di ragno: un giudizio che sa di ammirazione e di resa (onorevole) delle armi: «Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è…». E aggiunse una confessione commovente, che riassume un rapporto di amicizia e un forte rammarico (amplificato, forse anche nel disagio, a causa della contesa Einaudi-Garzanti di cui s’è detto, cui Calvino partecipò): «È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio».

A parlare è lo stesso Calvino che scorgiamo nelle fotografie del funerale civile di Fenoglio, in testa al corteo, vicino al feretro; il Calvino che a metà febbraio del 1963, «entrò in ufficio sconvolto, dominando a stento le lacrime», come ha ricordato un altro einaudiano, Ernesto Ferrero. DopoUna questione privata, che sembrò opera conclusiva, venne presentato nel 1968 Il partigiano Johnny; subito nel 1969 seguì il ripescaggio della Paga del sabato… iniziò insomma a rivelarsi in tutta la sua imprevedibile ampiezza il Fenoglio postumo, inedito, sommerso;quello della «fatica nera», dei «penosi rifacimenti », dei molti progetti lungamente elaborati, portati a non molti passi dalla completezza e poi scartati e superati, all’inseguimento di una visione ulteriore, migliore; dei tanti lavori di respiro e destinazione diversa lasciati aperti dalla morte inattesa. Le carte che avrebbe voluto gli eredi bruciassero (e che il fratello Walter, invece, scelse di conservare, regalandoci una lettura «abusiva» ma irrinunciabile) diventarono fonte di ammirato stupore (l’altra faccia del rammarico), oggetto di poderose analisi filologiche, e libri del cuore di generazioni di lettori sempre giovani. Il dato sorprendente è che le carte ci parlano spesso con eloquenza dell’autore e dell’uomo; e che lo stato di non-finito di quello che chiamiamo Il partigiano Johnny, anziché costituire un limite si dimostra un’affascinante, unica prova di grandezza, di originalità, di forza poetica.

Tra le altre cose, Fenoglio aveva voluto far sapere di scrivere «per vocazione»: era anzi il motivo messo in cima a un articolato elenco. Questa vocazione era sentita come una responsabilità, non come autoindulgenza: altrimenti Fenoglio avrebbe pubblicato di più, quando gli editori (negli ultimi anni) erano impazienti di avere cose sue nuove. Ma certo Fenoglio era fatto per scrivere, e fino all’ultimo la vocazione non l’abbandonò, anche nelle circostanze più difficili. A cinquant’anni dalla sua morte, non riusciamo ancora a non stupirci per come riuscisse a scrivere, anche ospedalizzato, in condizioni disagiate, mentre si sottoponeva a cure inappropriate.

«(La clinica) è zeppa come un uovo e io ho dovuto essere ospitato in un ex stanzino da bagno precipitosamente convertito in cameretta (…) basta che entri un dottore o un’infermiera perché nasca il problema di non cozzare l’un contro l’altro », spiegava al fratello Walter, da Bra, il 20 novembre del 1962. È l’ultima lettera nota di Fenoglio: fu ritrovata dopo la pubblicazione dell’epistolario, e il curatore, Luca Bufano, ne diede poi notizia e la commentò puntualmente in rivista. «Sto raccogliendomi per scrivere un nuovo libro», confida Fenoglio, «e in effetti ho già buttato giù, molto grezzamente, la prima parte (una sessantina di pagine). Dovrebbe essere la storia (del tutto fantastica, o per lo meno leggendarizzata) dei Fenoglio di Monchiero (Amilcare, Virgilio, Ugo e la sorella Alda) negli anni della prima guerra mondiale, con inclusione della incredibile licenza dello zio Annibale Gavarino di Mombarcaro. Ci pensavo da un bel pezzo, ma il lavoro obbligatorio mi aveva sempre impedito di applicarmici con la necessaria continuità e concentrazione. Ora il tempo ce l’ho, a iosa, e questo libro dovrebbe uscir fuori. Scrivo non più di due ore al giorno, vale a dire un quattro-cinque pagine al giorno. Scrivo un’ora al pomeriggio e un’ora di piena notte, perché ovviamente vado soggetto a insonnia intermittente». La sessantina di pagine cui accenna è ciò che conosciamo come I penultimi (pubblicato nel 1972 da Einaudi, e oggi ristampato, un po’ annegato, nella raccolta Tutti i romanzi). I penultimi si aprono con la famosa Lettera allo zio Gilio: una delle pagine più divertenti e irriverenti che Fenoglio abbia scritto. Pensare che l’abbia scritta nelle condizioni che ci ha raccontato, senza sapere di essere purtroppo ben lungi da una guarigione, ci fa venire in mente quell’altro suo appunto, che pochi anni prima aveva intitolato The end, e che a ogni anniversario ci colpisce ancora di più: «Ci sarà sempre un racconto che vorrò fare ancora, ma ci sarà anche il giorno che non potrò più vivere».

Edoardo Borra

L’omaggio con la Primavera di bellezza e l’inaugurazione dello Spazio Fenoglio

La Primavera albese sarà «di bellezza» per onorare Beppe Fenoglio. Il titolo del romanzo edito nel 1959 è il marchio apposto dall’assessore alla cultura Paola Farinetti per la serie di manifestazioni che comprenderanno le celebrazioni del 25 aprile, Festa della liberazione, il Progetto Fenoglio del Teatro sociale, dal 2 marzo. Per l’autunno la fondazione Ferrero – che con il proprio centro di documentazione è da molti anni un fulcro per quanti a diverso titolo si occupano di Fenoglio e di altre figure della cultura albese – organizzerà un convegno di studi. Ed è in lavorazione il volume contenente la raccolta “definitiva” delle fotografie di Beppe Fenoglio scattate da Aldo Agnelli e da altri. Farinetti ha annunciato, nel corso dell’incontro di venerdì scorso in Comune, che il programma sarà spiegato nella sua interezza il mese prossimo, fino alla Maratona fenogliana di settembre.

I cinquant’anni dalla morte dello scrittore albese coincideranno con l’apertura, nella sede del centro studi a lui intitolato, in piazza Rossetti, dello Spazio Fenoglio, sabato 16 febbraio alle 16. La casa di fronte all’angolo del Duomo, al primo piano conserva la “sala” di casa Fenoglio, che è stata allestita, come ha spiegato Giulio Parusso, il direttore, «con fotografie di Agnelli e testi che ripercorrono la vita dello scrittore, la famiglia, la città, le Langhe e i suoi amici». Il centro studi, che compie dieci anni, offrirà un nuovo luogo di interesse per i non pochi appassionati e studiosi fenogliani, la stanza dove Beppe Fenoglio «scrisse la maggior parte delle sue opere».

Il 18 febbraio uscirà il primo dei due volumi, editi dalla Stampa e offerti insieme al quotidiano, che raccolgono i romanzi. L’iniziativa è partita da Piero Negri Scaglione, il giornalista albese che ha anche curato la prefazione dell’opera. Lunedì 18 febbraio (alle 15) si terrà una commemorazione pubblica di Beppe Fenoglio, presso la sua tomba nel cimitero cittadino. Saranno letti alcuni brani delle sue opere e del Diario. Margherita Fenoglio, che del Centro studi è presidente, ha ricordato come Alba «rendendo omaggio a Fenoglio rende omaggio a se stessa» e ha ricordato Ugo Cerrato, amico del padre e «custode» della sua memoria: «Ce lo rendeva vicino».

p.r.

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