«Il 14 aprile ho parlato con il presidente Mamnoon Hussain, che si è detto disponibile a trovare un modo per limitare l’uso improprio della legge anti-blasfemia». Così dichiara ad Aiuto alla chiesa che soffre monsignor Sebastian Francis Shaw, arcivescovo di Lahore.
Nei giorni scorsi il presule è stato ospite di Acs a Roma, dove ha raccontato la situazione della sua Chiesa a rappresentanti di alcune ambasciate presso la Santa Sede. L’iniziativa è stata promossa da Acs nell’ambito di numerosi incontri organizzati tra testimoni della Chiesa perseguitata, esponenti dell’Unione europea e membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
Aumento delle accuse di blasfemia. Negli ultimi anni nell’arcidiocesi guidata da monsignor Shaw si sono registrati molti casi di blasfemia ai danni di cristiani, il più famoso dei quali riguarda Asia Bibi, la donna cristiana madre di 5 figli in carcere dal 2009 perché accusata ingiustamente di aver offeso il profeta Maometto. La cosiddetta legge anti-blasfemia – corrispondente in realtà ai commi B e C dell’art. 295 del codice penale pachistano – punisce con l’ergastolo chi profana il Corano e con la pena di morte chi insulta il Maometto.
In più di un’occasione le accuse hanno innescato tragici attacchi alla minoranza religiosa. Nel marzo del 2013, nel quartiere cristiano di Joseph Colony, circa 200 case sono state incendiate dopo che il 26enne Sawan Masih era stato accusato di aver offeso Maometto in seguito a una lite con un suo conoscente musulmano. E mentre gli ottanta colpevoli dell’attacco sono stati liberati su cauzione, il giovane cristiano è stato condannato a morte. «Quando un’accusa di blasfemia è rivolta a un musulmano è lui il solo a pagarne le conseguenze – nota monsignor Shaw – mentre se ad essere incolpato è un cristiano, l’intera comunità è ritenuta responsabile». Il caso di Sawan Masih mette in evidenza la facilità con la quale sia possibile essere incolpati di blasfemia, specie perché chi accusa non è tenuto a fornire alcuna prova a sostegno delle proprie affermazioni.
Come limitare l’abuso della legge. «Un modo efficace per limitare l’abuso della legge anti-blasfemia – dichiara il presule ad Acs – potrebbe essere quello di punire chi formula false accuse». Monsignor Shaw sottolinea poi l’intenso contesto emotivo legato al reato di blasfemia, alla base dei numerosi omicidi extra-giudiziali di presunti blasfemi, uccisi prima ancora di essere assicurati alla giustizia o perfino dopo essere stati assolti.
È necessario quindi un cambiamento a livello sociale, «da raggiungere attraverso la promozione del dialogo interreligioso ed esortando i pachistani di ogni religione a contribuire concretamente alla costruzione di una società più pacifica ed armoniosa».
I rapporti interreligiosi. A tal proposito monsignor Shaw racconta gli ottimi rapporti con numerosi leader islamici, rivelatisi determinanti quando nel maggio scorso a Lahore una folla di musulmani ha invaso un quartiere cristiano a seguito di un’accusa di blasfemia. «L’aiuto dei leader musulmani e dei politici locali è stato determinante nel favorire l’immediato intervento la polizia».
Il presule ritiene inoltre indispensabile investire su un’educazione capace di favorire la convivenza pacifica. Un importante passo in tal senso può essere compiuto con la modifica dei libri di testo delle scuole pubbliche pachistane, che contengono affermazioni offensive nei confronti delle minoranze religiose. Testi che alimentano l’intolleranza e la discriminazione, e che perfino le scuole cristiane sono costrette ad adottare, giacché parte del programma scolastico obbligatorio. «Abbiamo posto il problema all’attenzione delle autorità pachistane, che hanno promesso di prendere in considerazione i nostri suggerimenti».
Monsignor Shaw fa notare il fondamentale contributo offerto dagli istituti legati alla Chiesa, i cui studenti sono in maggioranza musulmani. «Le nostre scuole rappresentano un elemento chiave per il futuro del Pakistan. Sono ottimista e ritengo che lavorando tutti insieme potremmo costruire una società in cui conti il valore delle persone e non la classe sociale o l’appartenenza religiosa».
Marta Petrosillo