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Quirico: dovevamo colpire l’Isis prima

INTERVISTA Domenico Quirico, inviato de La stampa, sarà ospite l’11 novembre a Castagnito e il 14 novembre ad Alba per raccontare le sue esperienze. Tenuto in ostaggio per 152 giorni, in Siria, nel 2013, il giornalista govonese è considerato uno dei maggiori esperti in tema di estremismo islamico, Isis e immigrazione. Gazzetta l’ha incontrato per anticipare alcuni temi che tratterà durante gli incontri.

Domenico Quirico
Lei è stato uno dei primi a parlare di Isis. Che cosa si sarebbe potuto fare e cosa si può ancora fare oggi? La Russia può giocare un ruolo importante?
«Al tempo riportavo le idee che i miei sequestratori mi avevano espresso e capivo che stava cambiando qualcosa: non si trattava di terrorismo tradizionale. Si poteva evitare che nascesse, colpendolo quando non era ancora potente. Al momento c’è molto fermento e con una coalizione complessa e universale, forse, si potrebbe sconfiggere l’Isis. Questo potrebbe, però, rinascere sotto altre forme. Per quanto riguarda la Russia, ha sempre agito nell’area siriana. L’intento, probabilmente, è quello di semplificare le attività del momento: l’unica maniera per sconfiggere l’Isis è, per gli americani, accettare Assad».
Che ruolo ha giocato la comunicazione per far passare l’idea del terrore dietro al progetto Isis? Questa forza conta anche su tecnici e professionisti per diffondere il messaggio del califfato?
«I mezzi di comunicazione sono importanti per il califfato come lo sono stati per ogni guerra: un video in cui un seguace dell’Isis sgozza un nemico è un messaggio forte per affermare la loro potenza. Certamente questo è stato utile, anche in vittorie che sembravano impossibili, ma che hanno visto predominare il califfato a causa della paura. C’è, però, un errore di fondo nell’idea comune: il pensare che i seguaci di questa organizzazione siano degli ignoranti che non conoscano il mondo. Chi propaganda l’Isis è informato e ha conoscenze tecniche specifiche: disprezza le tecnologie occidentali, ma ciò non vuol dire che non le usi».
Parlando del terrore che l’Isis sta cercando di trasmettere, è stata diffusa la notizia che il califfato sia in possesso di armi chimiche. Pericolo reale o strategia di guerra?
«In teoria potrebbero esserne in possesso, perché avrebbero potuto ottenerle dai siriani. In realtà, però, credo sia necessaria un po’ di cautela a proposito di queste notizie: se si è in possesso di un’arma così terribile, la prima cosa che si fa è usarla contro il nemico, no? A questo punto mi sembra curioso che ne siano in possesso, ma che non le usino per sovrastare le altre forze».
Lei è stato recentemente in Tunisia. Qual è la situazione dopo i due attentati a turisti dei mesi scorsi?
«In Tunisia è stata approvata una Costituzione e ci sono state le elezioni, che hanno portato alla vittoria un gruppo conservatore laico. La situazione, nonostante questo, è ancora difficile: una parte della popolazione tende ancora all’islamismo radicale, l’economia è in una condizione disastrosa e ci sono molti giovani che combattono per il califfato. È sbagliato pensare che la situazione si sia risolta in modo del tutto positivo, purtroppo è ancora molto precaria e gli attentati lo dimostrano».
Dal 5 settembre è aperta ad Asti la mostra Dal nostro inviato al fronte. Da dove è nata l’idea?
«L’idea nasce dalla constatazione che La stampa fosse in possesso di un immenso archivio a proposito delle guerre del Novecento, dalle più importanti a quelle che possiamo considerare delle guerriglie. Mi sembrava giusto raccontare queste storie attraverso i racconti degli inviati e il desiderio era anche quello di omaggiare questa figura professionale che oggi sta pian piano sparendo. Grazie alle tecnologie è possibile raccontare le guerre da lontano, dimenticando però l’esperienza diretta. La mostra non vuole, però, incitare alla guerra: viene vista attraverso le persone che la vivono».
Alessia M. Alloesio

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