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Non piace l’arrivo degli investitori stranieri sulle colline del Barolo

L’INCHIESTA Centoventi questionari distribuiti a un campione casuale di albesi. È quanto ha fatto Gazzetta per definire la percezione odierna del mondo del vino. Dalle risposte emerge l’affezione al “bicchiere”: non nel senso dell’abuso ma del legame edonistico e del piacere moderato. Il 34 per cento degli intervistati, infatti, dichiara di bere vino due o tre volte la settimana, il 22 per cento una volta al giorno e soltanto il 9,8 per cento di non godersi mai questo piacere. Quasi un albese su due ha dai due ai cinque amici o parenti che lavorano nel comparto vitivinicolo, a testimonianza della prevalenza occupazionale, economica e culturale del settore. Il 28 per cento degli intervistati, infine, dichiara di avere più di dieci conoscenti occupati nel mondo del vino.

I dati proseguono: il 90 per cento degli intervistati ritiene che l’universo enologico abbia importanza cruciale per il benessere della comunità e il 93,1 per cento pensa che l’arricchimento dell’agricoltura negli ultimi vent’anni sia un fattore da considerarsi assolutamente positivo. Un analogo 96 per cento, praticamente la totalità degli intervistati, assicura che in futuro «la presenza di investitori stranieri tra le colline è destinata ad aumentare», mentre il 66 per cento ritiene che il Paese maggiormente presente nel business del vino sarà la Cina, il 40 per cento preconizza l’avvento degli americani, il 41 per cento della Russia e il 22 per cento degli Stati del Nord Europa come Svezia, Norvegia e Danimarca.

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I dati del questionario proseguono, evidenziando forti perplessità: il 52 per cento degli albesi pensa che la viticoltura nostrana, in seguito all’arrivo massiccio di investitori stranieri «possa smarrire le proprie radici naturali, legate alla terra e alla semplicità, per lasciare il posto a dinamiche di tipo industriale».

E per concludere, un intervistato su due attribuisce un punteggio compreso tra 1 e 6 nella scala che indaga la domanda: «Quanto è desiderabile la presenza straniera nel mondo del vino (da uno a dieci)?». Divisi tra attaccamento al passato e desiderio di evoluzione, gli albesi sembrano oscillare in questo frangente tra timori ed entusiasmi, in uno snodo di cruciale rilevanza. Comprendono di vivere un’epoca di transizione il cui esito coinciderà, comunque vada, con importanti trasformazioni nel loro stile di vita.

Marco Giuliano

Non piace l’arrivo degli investitori stranieri sulle colline del Barolo

Perderemo la nostra identità a favore del puro business

L’idea dell’intromissione e dell’invasione sono incubi atavici e innati: si legano alla paura dello straniero
e del diverso, al timore di perdere sé stessi e ciò che si possiede. Spiega un lettore: «Con l’arrivo di stranieri si perderebbero le nostre origini di viticoltori, anche se i nostri prodotti potrebbero essere meglio conosciuti nel mondo». Aggiunge un altro: «Gli stranieri porterebbero a un incremento del concetto di business a discapito della comunità, oltre che a una maggiore competizione». Un altro intervistato preconizza «una perdita di identità dei nostri vini». E ancora: «I capitali si trasferiranno all’estero, non essendo reinvestiti in loco. Vedo solo svantaggi: gli investitori vogliono lucrare a discapito della qualità». Non c’è molto spazio per le note positive: standardizzazione del prodotto e declassamento delle denominazioni, annientamento degli sforzi fatti da nonni e bisnonni, oltre a frammentazione
e dispersione identitaria sono il tema. Solo un albese stempera l’ansia: «Se il modello sarà quello francese, come avviene da oltre 50 anni per i grandi Chateaux, verrà snaturato nulla, poiché sarà evidente che proprio la particolarità del territorio (nel senso  di chimica del terreno) è l’unica maniera per garantire l’investimento». Una lettrice, infine, non sembra temere di esibire la propria emotività.  E sintetizza senza mezzi termini: «Ora ho paura».

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