Premio Pavese. Corrado Augias: «Noi italiani, così simili, così divisi»

Premio Pavese.  Corrado Augias:  «Noi italiani, così simili, così divisi»

 

L’INTERVISTA Un premio nato trentacinque anni fa nel nome di uno degli scrittori simbolo del Novecento e per riconoscere il lavoro di scrittori, giornalisti e intellettuali capaci di esprimere valori per la società. Domenica 26 agosto, a Santo Stefano Belbo, l’edizione 35 del premio Cesare Pavese è stata allestita come sempre dal Centro pavesiano museo casa natale, con il contributo della Regione, del Comune, delle fondazioni Crc e Crt, senza dimenticare la collaborazione della Provincia di Asti, della fondazione Pavese, del Consorzio dell’Asti e delle realtà enogastronomiche. All’ombra degli alberi che circondano la casa in cui lo scrittore nacque nel 1908, hanno ricevuto il ricoscimento Lidia Ravera per il romanzo Il terzo tempo; Corrado Augias per il saggio Questa nostra Italia; l’editorialista del Corriere della sera Antonio Polito per Riprendiamoci i nostri figli. Per la poesia il premio è andato a Olivieri, con la silloge A quale ritmo, per quale regnante. Quest’anno è stato assegnato il premio per un’opera straniera, andato al presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping per Governare la Cina e ritirato da un rappresentate dell’ambasciata cinese.

Terminata la cerimonia, abbiamo intervistato Corrado Augias, che in Questa nostra Italia propone un viaggio originale nell’identità del nostro Paese, da Nord a Sud.

Augias, quando ha sentito il bisogno di scrivere questo libro?

«Ho iniziato a lavorarci tre anni fa, quando non si poteva prevedere come sarebbe evoluta la nostra storia, fino al punto in cui siamo arrivati oggi. L’idea è nata da un pensiero semplice, persino banale: vivo molto spesso all’estero, a Parigi, e mi capita di riconoscere gli italiani al volo, per strada, senza neppure sentirli parlare nella mia lingua. Allora, mi sono chiesto: come può essere che si riconosca un italiano solo vedendolo, senza sapere la sua provenienza, da Brescia o da Palermo per esempio? Per assurdo, in altre situazioni sembriamo così divisi, addirittura sulla nostra storia. Per trovare una risposta, ho sentito il bisogno di ritrovare e di cercare di comprendere l’esistenza di un’identità italiana».

Come si è articolata la sua ricerca?

«Ho scelto di proporre ai lettori un vero viaggio dal Piemonte alla Sicilia, alla ricerca di ciò che rende unici gli italiani. Mi sono basato molto sugli scrittori e sui poeti, per due motivi essenziali. Prima di tutto, quando sono veri letterati, hanno lo sguardo molto lungo e sanno comprendere la realtà più delle altre persone. In secondo luogo, sono convinto che per noi italiani la lingua sia molto più importante che per gli altri popoli. Come per tutti, ci serve per esprimere concetti, per comunicare tra di noi, per scrivere opere, ma è anche qualcosa di molto più elevato: è uno strumento fondamentale di identità nazionale, che ha preceduto di almeno tre secoli la formazione dello Stato unitario. In altre parole, eravamo ancora divisi, ma la lingua unita esisteva già».

Un’identità italiana esiste, ma forse siamo i primi a non esserne così coscienti…

«Una delle cause è il fatto che la nostra unità sia arrivata molto tardi, per una serie di fattori che hanno influito sulla storia. Per esempio, la conformazione geografica del Paese: siamo una penisola lunga e stretta, piena di montagne, dalle Alpi agli Appennini, senza dimenticare colline come quelle delle Langhe, del Roero e del Monferrato. Da sempre le comunicazioni sono state difficili e la politica opera in modo migliore quando non esistono ostacoli naturali di questo tipo, altrimenti stenta. I Romani l’avevano capito, ma poi la storia è proseguita in modo diverso».

Nel suo discorso ha citato i valori di impegno civile professati da Pavese e da Beppe Fenoglio, che rischiano di essere in ombra per l’avvento di nuovi modi di pensare: sarà possibile riscoprire questi valori o ne nasceranno altri?

«Ritengo che ci siano valori effimeri, tanto da essere necessaria la loro caduta in momenti di passaggio: oggi la nostra storia sta cambiando in modo molto veloce ed è normale che si abbandoni concetti superati, appartenenti al periodo precedente. Ma ci sono anche altri valori, che devono restare e devono essere coltivati con forza, a partire da uno molto importante, relativo alla politica di oggi. Mi riferisco a quella che i Romani chiamavano concordia discors: nelle aule del potere, significa essere d’accordo su preziosi principi di fondo, dai quali partire per il dibattito e la dialettica. Oggi sembra che queste basi siano venute meno, tanto da mettere a rischio la coesistenza civile».

Francesca Pinaffo

 

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