Botta continua di slogan squadristi

Don Antonio Sciortino
Don Antonio Sciortino

C’è un’espressione che, di questi tempi, torna con una certa frequenza. Suscitando fastidio. Oltre a rievocare momenti tristi della nostra storia. A pronunciarla è il vicepremier leghista, Matteo Salvini. Non perde occasione, qualunque sia il tema, per ribadire: «Me ne frego». Con piglio ducesco. Slogan squadrista, di mussoliniana memoria. Un altro sdoganamento. Che fa il paio con il “balcone”. Quello di palazzo Chigi. Per l’esibizione farsesca del collega di Governo, il pentastellato Di Maio. Attorniato da una corte di plaudenti 5 stelle, con bandiere. In segno di vittoria. A festeggiare la voragine del debito pubblico. Profondo rosso. Un clima distante anni luce dal I care (“Mi importa, ho a cuore”) di don Lorenzo Milani. Che si è preso cura degli ultimi e dei poveri. Ridando dignità umana e civile ai figli dei contadini. Allora disprezzati e discriminati. E l’ha fatto non a parole o a slogan. Né per tornaconto personale. Ma pagando di persona, con la vita. Ora anche don Milani è affossato. Una seconda volta.

Così, se Bruxelles è perplessa sulla manovra economica, il leader leghista ribadisce: «Io me ne frego, e la faccio lo stesso». E rincarando la dose: «Me ne frego delle minacce Ue, noi rispondiamo solo agli italiani»; «Me ne frego dello spread. Ce lo mangiamo a colazione». Un campionario vasto. Da sbruffone. Con toni arroganti. Che non risparmia neppure il più alto colle romano. A Mattarella che lo invita a tenere in ordine i conti pubblici, secondo Costituzione, il ministro dell’Interno ribatte: «Stia tranquillo, Presidente». Liquidandolo, con sufficienza. Espressione infelice. La stessa che, qualche anno fa, non portò bene a Enrico Letta. Defenestrato dalla presidenza del Consiglio.

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Clima irrispettoso. Che sui social si fa violento. Allargandosi a macchia d’olio. Se Mario Draghi e Sergio Mattarella s’incontrano, preoccupati per le sorti dell’Italia, i fedelissimi gialloverdi si scatenano. E li ricoprono di insulti, per intromissione indebita. «Traditori del popolo», «golpisti», «eversori» … le espressioni più “gentili”. Quelle riferibili, per pudore. Senza alcuna presa di distanza dei leader di riferimento. Silenzio assoluto. Anzi, qualche dichiarazione surreale: «Tra lo spread e i cittadini, noi scegliamo i cittadini», ha tuonato “Gigino” Di Maio. E Salvini, da controcampo: «Accada quel che accada, noi andremo avanti». Nel frattempo, accade che il Paese scivola in giù. Sempre più in basso. E lo spread s’impenna. Sempre più in alto. Al netto della propaganda di Governo.

Una tensione continua. E il ministro dell’Interno eccessivo in tutto. Sopra le righe. Dopo gli immigrati, il nemico di turno è l’Europa. Una polemica continua. A colpi di insulti. Botta su botta. Senza giovamento per nessuno. E i problemi lì, ad aggravarsi. A ingarbugliarsi. Inimicandosi tutti. E l’arte della diplomazia scartata dal continuo appello al popolo. Tutto ci si concede nel suo nome. Anche “fregarsene” di trattati internazionali. Seppure sottoscritti dallo Stato italiano. Per non dire del Parlamento di casa nostra. Svuotato delle sue prerogative. Tra ferie, scarsa attività e decreti. Esautorato e in declino. Più che in passato. Quasi inutile per una democrazia diretta. Quella dei cittadini, dell’uno vale uno. Quella dei click e dei tweet. D’altronde, il fondatore 5 stelle i parlamentari li voleva per sorteggio. Scarsa considerazione delle istituzioni.  E, di recente, il Parlamento attaccato e sbeffeggiato dal ministro dell’Interno, per i banchi vuoti alla sua interrogazione. Lui assenteista seriale a Strasburgo. Zittito, però, dal presidente di turno della Camera, Mara Carfagna. Che gli ha pure ricordato: «Le parrà strano, ma le regole valgono anche per lei». Un sussulto di dignità istituzionale. Finalmente.

Stessa considerazione per la stampa e i giornalisti. Un’ossessione per il Governo pentastellato. Insofferente alle critiche. O, meglio, alla verità. Come quella sui ritardi dopo il crollo del ponte Morandi. Sulle incongruenze tra promesse elettorali e soldi a disposizione. Sui bilanci, con numeri ballerini. Sul condono-regalo agli evasori, spacciato per “pace fiscale”. Il vicepremier 5 stelle è più a suo agio sui balconi e sui barconi a festeggiare, che a confrontarsi con l’informazione. Anzi, si augura la chiusura dei giornali che, a suo dire, remano contro il Governo. E il licenziamento dei giornalisti. Quelli non “zerbinati”. Naturalmente. Il colmo per un ministro del Lavoro. Anche se con scarse esperienze lavorative alle spalle. Forse, nessuna. Più facile, allora, la propaganda con un tweet. Un’intervista televisiva priva di contraddittorio. E conferenze stampa di Governo, senza domande dei giornalisti. E se un ministro, Tria nel caso in questione, s’attarda per un’interlocuzione, una solerte funzionaria lo porta via. Quasi di peso.

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Inevitabile la reazione degli interessati. «Di Maio, come del resto buona parte del Governo, sogna di cancellare ogni forma di pensiero critico e di dissenso. E si illude di poter imporre una narrazione dell’Italia lontana dalla realtà». E i giornalisti di Repubblica ed Espresso, direttamente chiamati in causa, gli fanno sapere: «Dimostra, per l’ennesima volta, di non conoscere la differenza tra bufale e notizie: Evidentemente, perché espertissimo della prima fattispecie e allergico alla seconda». La verità è sempre scomoda al potente di turno. Ma una stampa libera è di primario interesse per un Paese democratico.

Intanto, il ministro dell’Interno la sua bandierina l’ha piazzata. Con enfasi mediatica. Il decreto Salvini su sicurezza e immigrazione è passato al vaglio della presidenza della Repubblica. Anche se con lettera di accompagnamento. E invito al rispetto delle norme internazionali su rifugiati e diritto d’asilo. Alla sua colorita esultanza, «Ciapa lì e porta a ca’» (prendi e porta a casa), si sono contrapposte le organizzazioni umanitarie. E il mondo cattolico, in particolare. Soprattutto per l’associazione tra migranti e ordine pubblico. «Inserirlo lì», ha detto l’ex segretario della Cei, Nunzio Galantino, «significa giudicare già l’immigrato per una sua condizione, per il suo essere immigrato e non per i comportamenti che può avere». Allo stesso modo, Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Giovanni XXIII: «L’annullamento della protezione umanitaria è una scelta grave che spinge i migranti più vulnerabili verso forme di esclusione sociale». E anche il Centro Astalli: «Si va a reiterare la nefasta equazione che assimila i problemi di sicurezza interna, come criminalità organizzata e terrorismo, al tema della gestione delle migrazioni. E, in particolare, delle migrazioni forzate, che ben altro sforzo legislativo richiedono in termini di programmazione, gestione e integrazione dei migranti». E Pax Christi, con fermezza: «Non ci riconosciamo in chi propone leggi disumane. E non ci riconosciamo in quel sessanta per cento che applaude. Noi non ci stiamo e non ci vogliamo essere».

Ma, a stretto giro di tempo, il ministro dell’Interno ha esultato una seconda volta. Ha gioito alla notizia degli arresti domiciliari di Mimmo Lucano, primo cittadino di Riace. Il “sindaco dell’accoglienza” e dell’Italia solidale. Accusato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Per presunti matrimoni combinati. E per “fraudolento affidamento diretto del servizio dei rifiuti”. Un brutto colpo. Un facile pretesto per scatenargli contro la canea di chi ha mal digerito il “modello Riace”. Esempio mondiale di accoglienza e integrazione. «È il segno dell’aria che tira», ha confessato Lucano. Sconsolato. Un arresto eccessivo per i reati imputati. Quasi che il problema della Locride e della Calabria fosse il sindaco di Riace. E non la ‘ndrangheta. O il narcotraffico e la corruzione criminale. E il ministro dell’Interno mette su Facebook un video dove l’ex vicesindaco di Riace, Pietro Zucco, attacca Mimmo Lucano. Il video risale a due anni fa e Zucco è un condannato, in via definitiva, come “prestanome di boss della ‘ndrangheta”. Paradossale per un ministro dell’Interno.

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Ma non è mancata la solidarietà di una larga fetta di popolazione. A migliaia hanno manifestato a Riace. Assolvendo Mimmo Lucano dal “reato di umanità”. E di “disobbedienza civile”. «La vicenda giudiziaria non toglie nulla al significato e alla profondità di ciò che in quel piccolo paese calabrese si è sperimentato negli ultimi vent’anni», ha detto Tonio Dell’Olio del “Mosaico di pace”. «Quell’uomo e quel paese vanno difesi con le unghie e con i denti. Niente può schizzare fango su un’intuizione che, nel tempo, ha costituito una risposta al bisogno fondamentale di chi ha la sola colpa d’essere venuto al mondo dalla parte sbagliata del Mediterraneo». Stesso parere quello del vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva: «Occorre un sussulto di umanità che aiuti a superare la tentazione di vedere nel migrante un pericoloso straniero. Anche lo Stato con le sue regole e il suo apparato burocratico deve tener conto di tali bisogni».

Il sindaco di Riace non s’è appropriato di fondi pubblici. L’hanno appurato i giudici. Né ha frodato lo Stato. Ben diversamente dalla Lega, di cui è leader il ministro dell’Interno, condannata a restituire 49 milioni di euro per truffa sui rimborsi elettorali. Anche se una generosa maxirateizzazione della procura di Genova ha permesso di pagare in ottant’anni. Trattamento di eccessivo favore, che ha suscitato proteste. E malumori. Un precedente pericoloso. La legge è uguale per tutti. Ma una giustizia che si diluisce così a lungo nel tempo, rischia di non essere giusta.

Eppure, nel marzo 2005, l’allora europarlamentare Salvini s’era recato a Roma. Con un manipolo di leghisti. Per protestare davanti alla sede della Lega calcio. «I cittadini del Nord», urlava, «sono contrari a qualsiasi ipotesi di decreto spalma debiti per le società di calcio. Le norme fiscali che prevedono sconti o dilazioni nei confronti del fisco vanno cancellate. Cancellate per tutti. Al piccolo imprenditore i debiti fiscali non li toglie nessuno». E su uno striscione era scritto: «Il calcio paghi tutti i suoi debiti, nessuno sconto ai signori del pallone». Allora, si trattava della società calcio Lazio del presidente Lotito, il cui debito di 140 milioni col fisco era stato rateizzato in ventitre anni. Corsi e ricorsi della storia. Memoria corta. O, forse, la coerenza non è più virtù.

Qualcosa, però, si muove nella società italiana. In quel cinquanta per cento del cosiddetto “popolo”, che questo Governo non l’ha votato. Né vuole rinnegare settant’anni di storia europea. E di pace tra le nazioni. L’associazionismo cattolico è in risveglio. Gli uomini di cultura danno segni di vita. Il popolo della marcia Perugi-Assisi si compatta. E non solo sulla pace. Fanno i primi passi movimenti come Demos, Democrazia solidale, “il partito delle periferie”, come l’ha definito uno dei promotori. Le piazze di Roma e Milano tornano a riempirsi. La rete si allarga. Maglia dopo maglia. Contro una politica incerta e avventurosa. E un populismo che inquieta. Non è tempo di tergiversare. O di disquisizioni da salotto. La sfida è urgente. Pena risvegliarsi in un’altra Europa. All’improvviso. Senza garanzie. E futuro. E l’Italia a far da detonatore. L’epicentro di un terremoto politico devastante. Una “Brexit italiana” dall’euro e dall’Europa, forse, non è più soltanto un dubbio.

Antonio Sciortino,
già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale

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