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Ad Alba l’ultimo saluto a Roberto Ronchi, protagonista dell’epoca d’oro della Miroglio

Ad Alba l'ultimo saluto a Roberto Ronchi, protagonista dell'epoca d'oro della Miroglio

ALBA È scomparso ieri notte Roberto Ronchi epigono dell’età dell’oro dell’industria tessile albese. Nato nel 1937 a Firenze, era entrato nel 1954 nell’allora laboratorio tessile dei fratelli Carlo e Franco Miroglio in qualità di impiegato nello stabilimento di tessitura della seta intitolato al padre Giuseppe. Passato alla divisione Vestebene aveva percorso rapidamente gli incarichi dirigenziali approdando, nel 1972, alla direzione generale dello stabilimento albese e delle numerose succursali aperte dapprima fra le colline di Langa e Roero, quindi in svariate nazioni (Grecia, Egitto fra le altre). Testimone privilegiato delle avvisaglie della crisi che avrebbe colpito il settore e delle misure attuate per contrastarla ha fornito un contributo al lancio, negli anni ’80, di marchi “satellite” come Elena Miro’ e Caractére sino ad assumere nel 2009 l’incarico di presidente delle controllate Miroglio Textile e Miroglio Fashion. Al ritiro a vita privata, dopo lunga persistenza nel consiglio d’amministrazione di Miroglio Spa e una parentesi ai vertici della società calcistica Albese, era seguita, nel 2017 la scomparsa della moglie Vittoria Revello compagna di vita dall’età di 23 anni e madre dei figli Patrizia, Roberto, Riccardo e Rossana. Il funerale avrà luogo domani, sabato 22 giugno, nella chiesa di Cristo Re alle 16, chiesa dove verrà recitato anche il rosario questa sera alle 20 e 30.

Davide Gallesio 

Riportiamo qui di seguito l’intervista a Roberto Ronchi pubblicata sul numero di Gazzetta d’Alba del 17 marzo 2009

Della città in cui è nato, Firenze, ha conservato una lieve inflessione e la verve del carattere, ben mitigata dalla consuetudine sabauda, che gli ha trasformato la vita – «i piemontesi mi hanno insegnato la concretezza, l’abnegazione al lavoro e a stare con i piedi per terra», dice – in oltre mezzo secolo. Roberto Ronchi – da gennaio presidente di Miroglio fashion (ex Vestebene) e Textile, oltre che consigliere di Miroglio spa –, classe 1937, ripercorre con Gazzetta l’impegno nel gruppo tessile albese, intrecciando la storia dell’azienda con le vicende di un’Italia alle prese con il dopoguerra, la lotta sindacale, la delocalizzazione e la grande crisi odierna.

Lei arrivò in Miroglio giovanissimo, Presidente?

«Nel 1954, appena terminati gli studi di avviamento professionale. Fui assunto come impiegato d’ordine alla tessitura della seta Giuseppe Miroglio. Ad agosto dell’anno successivo Carlo Miroglio mi prese con sé. Erano gli inizi di Vestebene. Avevo 18 anni, grande entusiasmo e ammirazione per Carlo, che fu il mio primo, grande maestro. A 23 anni mi sposai, giovanissimo, per amore, con un’albese, Vittoria Revello, Rommy per me, una donna a cui devo moltissimo e che mi ha dato quattro magnifici ragazzi – Patrizia, Roberta, Rossana e Riccardo – oggi adulti».

Da impiegato a presidente, una carriera lunga più di cinque decenni, che ha visto crescere la “sua” azienda nel mondo.

«Sì, dagli esordi fino al 2007 sono rimasto in Vestebene, per 54 anni. Vi ho trascorso oltre cinque decenni, determinanti per la mia esistenza e per la storia del gruppo Miroglio. Ho attraversato cambiamenti epocali nella società, che hanno influito sulla trasformazione dell’azienda».

Partiamo dagli esordi di Vestebene.

«Erano i primi passi, l’avvio della confezione. I Miroglio non erano figli d’arte, in quanto arrivavano dalle grandi aziende tessili. Furono anni pionieristici».

A chi si deve la svolta?

«Fu la genialità del commendator Miroglio, il quale, dopo aver reso grande il reparto tessile, vide l’opportunità della confezione. Ricordo che andavamo dai clienti del tessile per incentivare la vendita degli abiti, ma eravamo accolti con scetticismo. Andammo avanti, credendo fortemente nel nostro lavoro».

Poi ci fu il boom e in Italia esplosero i consumi.

«Gli anni Sessanta portarono i grandi stabilimenti, sul modulo Fiat. Anche per Miroglio produrre significò tempo e metodi nuovi, velocità, catena di montaggio, cottimo. Si doveva produrre al minor costo possibile, rendendo efficienti gli stabilimenti. Avevamo fabbriche solo ad Alba, già con 400 dipendenti. Ho avuto un’ottima squadra in Vestebene, collaboratori fidati che sono rimasti in azienda con me per decenni. Nel 1967 arrivammo al fatidico milione di capi, come promise Giuseppe Miroglio agli esordi della nostra avventura».

Dopo il boom, la crisi.

«Negli anni Settanta scoppiò la prima crisi tessile e dell’abbigliamento. In quel contesto – era il 1972 – diventai direttore generale di Vestebene. Si doveva cambiare, travolti dalla necessità. Le grandi fabbriche non rispondevano più alle esigenze della produzione, si cercava la specializzazione con piccoli stabilimenti, più flessibili. La società, intanto, scopriva la moda».

E Vestebene che fece?

«Anche Vestebene si adeguò, con gli stabilimenti di Bra, Cuneo, Cortemilia, Cerretto Langhe, Monticello e Corneliano. Si rispose alla crisi, adattandosi al momento. Fu un decennio di trasformazione, molto duro. Copiammo la rete di vendita Ferrero: ogni campanile un cliente, tanti clienti un prodotto differenziato e una catena ben rodata di consegna. Cominciammo, inoltre, a delocalizzare: in Grecia, in Egitto, a Tunisi. Fummo all’avanguardia anche in questo, sempre attenti alla qualità: gli stabilimenti sorgevano con tecnici italiani, organizzati sul modello Vestebene. In quel frangente si ammalò di leucemia Franco Miroglio, il motore dell’innovazione, il quale rientrò in azienda solo dopo anni.

Arriviamo così ai mitici anni Ottanta.

«Fu un’altra rivoluzione. La donna aveva “bisogno” di essere alla moda. Si passò dall’acquisto del pezzo al coordinato, al guardaroba: non solo l’abito, ma il foulard, la scarpa, la cintura, la borsa. A Vestebene nacquero nuove linee – Elena Mirò, Caractère – che ci attestarono a un livello di mercato superiore».

Infine la rete dei negozi.

«La velocità fu il refrain degli anni Novanta. Tagliammo il traguardo con il fast fashion, una collezione a settimana. Non c’era più il tempo di proporre al negoziante. Bisognava vendere in proprio. Iniziò l’avventura dei 1.300 negozi odierni. Era di nuovo un altro mestiere, occorreva imparare: cercare in ogni città la strada principale e le posizioni migliori, arredare, studiare le vetrine, tutte uguali, con il medesimo stile nel mondo, puntando alla qualità e alla convenienza».

Infine il nuovo secolo.

«Il Duemila segnò il passaggio generazionale. Nel gruppo Miroglio entrarono i figli di Carlo. E ora siamo alle prese con questa crisi pesante, da cui dobbiamo ricavare anche opportunità. Vestebene manterrà a mio avviso nel 2009 le posizioni o addirittura le incrementerà, aprendo altri cento negozi».

Lei, intanto, è diventato presidente delle due nuove società del gruppo.

«Nel 2008 ho lasciato Vestebene per stare accanto all’amministratore delegato del gruppo, Giuseppe Miroglio. Svolgo un ruolo amministrativo, anche se devo dire che mi hanno sempre appassionato l’organizzazione, l’allestimento dei negozi, i nuovi marchi, il cambiamento, la costante ricerca dell’innovazione».

La delocalizzazione era davvero indispensabile?

«Non ce l’avremmo fatta, altrimenti. Ma bisogna guardare ai numeri. Nel 1985 nel cuneese eravamo 1.850, oggi siamo 4.500 in Italia, 1.250 in zona, e il prossimo anno pensiamo ancora di crescere. Oggi, nell’ultimo nato, il grande magazzino di Pollenzo – dove lavorano 100 persone – arrivano da Cina, Turchia, Nord Africa, Italia meridionale 20 milioni di capi l’anno e qui vengono preparati per ripartire per tutto il mondo».».

I giovani stilisti, formati in azienda, rappresentano il vostro fiore all’occhiello.

«Abbiamo stilisti di fama, da cui attingiamo gli input di moda, mentre i nostri giovani – 120 circa – interpretano, nella sede di Alba, le tendenze per il mercato, sviluppandole per i nostri marchi».

La crisi mondiale ha cambiato le prospettive?

«Produrre all’estero è meno facile. Se lo si vuol fare, cercando la qualità, come Miroglio, bisogna avere ottimi tecnici e forze sul posto. Inoltre, occorre essere attenti: in Romania e Bulgaria oggi non conviene più stare, si cercano altri Paesi. Ma va detto che la globalizzazione ha anche pesato sulla riduzione dei prezzi della merce. E lungo questo percorso, per riconquistare la parte mediana della clientela, aumentando il suo potere d’acquisto, occorre muoversi ancora».

Quale futuro vede per il nostro Paese?

«Non siamo manovalanza, la nostra creatività deve guardare in alto».

È questo il senso dell’operazione che Miroglio sta per realizzare con il centro direzionale di corso Asti?

«Certo, dopo cinquant’anni in via Santa Barbara costruiremo un nuovo centro, destinato alla creatività, che resta ad Alba. Abbiamo delocalizzato l’operatività, la manodopera, ma non la gestione dell’azienda e l’inventiva».

Quando usciremo dalla crisi, a suo avviso?

«Non è facile fare previsioni. Credo – o forse spero – che tra due anni approderemo a un nuovo mondo, con regole diverse, anche finanziarie. Si deve tornare a essere più sobri, più attenti, più saggi. Il mondo è andato un po’ oltre. Forse bisogna imparare a essere piemontesi…».

Maria Grazia Olivero

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