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Quando era la miseria a portare i piemontesi finanche in Argentina

LA STORIA «Siamo in debito con quanti hanno deciso di emigrare in Argentina: per questo non dobbiamo dimenticarci di questi “cugini”; hanno salvato la piccola proprietà agricola in tempi difficili dall’eccessiva frammentazione, prendendo la strada del nuovo mondo».

Orsola Appendino ritorna più volte su questo punto e aggiunge: «Non hanno le capacità di spesa dei turisti tedeschi o russi, che ora affollano le nostre colline, ma non è una buona ragione per dimenticarli, specie in questo momento di difficoltà». Pensionata, da anni la signora Orsola si occupa di ricerca nell’ambito dei flussi migratori verso l’America Latina e, in particolar modo, di ricostruire i legami che il tempo e la distanza hanno annacquato tra famiglie piemontesi disperse dalla scelta di lasciare tutto e partire, trasferendosi a migliaia di chilometri di distanza. «Sono stata in Argentina la prima volta nel 1980, ho fatto parte della delegazione di Pralormo in occasione del gemellaggio di Carmagnola con il Comune di Rio Tercero. Da allora, spesso si rivolgono a me persone che cercano parenti dei quali si è persa traccia: le e-mail sono uno strumento troppo distaccato: io mi reco negli uffici e raccolgo le informazioni. E, poi, il mio lavoro non costa niente», scherza. Questi i presupposti dell’ultima ricerca, un caso che coinvolge direttamente il “parentado”, per usare un termine fenogliano. Perché la “malora” ha molto a che vedere con la storia di gente che cercava di sopravvivere con due o tre giornate di terra nel Roero. «Una mia cugina alla lontana, Rosina Appendino, nata nel 1930, aveva sposato, nel 1954, un carabiniere, Matteo Balla. Rimasta vedova in giovane età ha tirato su due figli e, durante i suoi soggiorni a Santo Stefano, dove tornava d’estate, mi raccontava che il marito e la suocera dicevano di avere 24 cugini nell’area di Valle San Lorenzo-Bordoni; alcuni di loro erano emigrati in Argentina, ma se ne erano perse le tracce», spiega Orsola.

Quando era la miseria a portare i piemontesi finanche in Argentina
Le nozze, avvenute in Argentina, del bisnonno di Esteban Balla, Giovanni, con Ana Ambrogio

Semplice normalità per le società agricole d’un tempo non troppo remoto: tante braccia, sistemazioni mezzadrili e quella poca terra di proprietà dispersa in fazzoletti risicatissimi insufficienti alla sopravvivenza; a questo si aggiungono i matrimoni fra persone con lo stesso cognome. «Il padre e la madre di Matteo Balla, marito di Rosina, erano ambedue Balla», prosegue Orsola: «Quando decido di mettermi all’opera nelle liste d’imbarco del Cisei (Centro internazionale per gli studi sull’emigrazione italiana) trovo 50 Balla partiti da Santo Stefano Roero e dintorni».

Un flusso del quale ci si fa un’idea, seppur in negativo e con tutte le cautele del caso, raffrontando due dati relativi al Comune roerino: nel 1885 i nuovi nati sono 101; nel 1920 il tasso di natalità si è dimezzato e le stime numeriche parlano di 50 bimbi. «Per prima cosa sono andata in Comune, mi hanno messo a disposizione i registri relativi al periodo e ho potuto ricostruire la genealogia. Poi, sfogliando le Paginas blancas (qualcosa di analogo alle nostre Pagine gialle) della Provincia di Cordoba la mia attenzione si è concentrata su un Esteban Balla: provo a telefonare e mi risponde la moglie: il marito è alle prese con un albero genealogico dei suoi avi giunti dall’Italia». Il veterinario Esteban Balla ha modo di parlare con Silvio Balla, figlio della signora Rosina, ristabilendo un canale che si era perso più di mezzo secolo fa.

Spiega Orsola: «Il bisnonno di Esteban, Giovanni Balla, era nato nel 1877: la madre era Teresa Capello, un cognome tipico; nel 1897 partì per l’Argentina dove sposò Ana Ambrogio».

Ma perché proprio Cordoba? Perché presentava le caratteristiche delle nostre zone. «I piemontesi di solito approdavano a Buenos Aires, salivano su un battello che risaliva il Rio de la Plata in direzione Nord, alla volta di Santa Fe, infine raggiungevano la Nova Pampa e la regione collinare di Cordoba, che ricordava loro la terra d’origine. In alcuni paesi il 90 per cento dei cognomi ha una chiara origine italiana», spiega la nostra ricercatrice. «Continuavano a fare i contadini esattamente come fra le colline del Roero: le braccia di veneti e piemontesi hanno dissodato la terra e bonificato intere regioni. In alcuni casi gli immigrati hanno potuto acquistare quei terreni, fra la fine dell’800 e gli inizi del ’900. Un esempio è Rio Tercero: fondato nel 1913 da un posto tappa, una storia che accomuna, a eccezione di Cordoba e Santa Fe, tutti gli insediamenti dell’area».

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Maria Balla sorella di Giovanni sposata con un Bordone del Roero: pure questa famiglia – qui con i figli – emigrò poi nel nuovo mondo

I nostri “cugini” argentini lasciavano una terra povera – ancora nel 1948 le partenze censite sono 15 solo da Santo Stefano – e raggiungevano i parenti in America Latina. «Nel Roero la grandine era una presenza costante, un temporale vanificava un’annata. I piloni di Montà erano oggetto di una forte devozione per evitare quella che per il mondo contadino era una sciagura, da tutti i paesi limitrofi vi ci si recava in pellegrinaggio per pregare».

Davide Gallesio

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