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Resistenza, la storia è alla prova dei fatti con Chiara Colombini

ALBA Il fact checking, la prova dei fatti, è porre una tesi, un discorso pubblico, una teoria, una notizia – materiale che nell’era digitale raggiunge le persone a grande velocità – al vaglio di prove tangibili e dell’analisi critica. È maneggiato dal giornalismo investigativo e dalle persone allergiche a verità preconfezionate e agli slogan applicati alla cronaca. La casa editrice Laterza di Bari ha scelto di applicare il metodo alla divulgazione della storia contemporanea, in Italia più sostanza e strumento di polemica (anche politica) che di studio, di giudizio sommario più che di riflessione consapevole e imparziale. Il risultato è in una collana dedicata: i primi due volumi, scritti da Carlo Greppi ed Eric Gobetti, sono sulla presunta inutilità dell’antifascismo e sulle foibe: in libreria, da giovedì scorso, si è aggiunto Anche i partigiani però… di Chiara Colombini.

Resistenza, la storia è alla prova dei fatti  con Chiara Colombini
La storica Chiara Colombini.

Albese, ricercatrice all’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, è autrice di diversi libri: tra questi i volumi curati con Giovanni De Luna, Aldo Agosti (Resistenza e autobiografia della nazione), Andrea Ricciardi (Scritti politici di Vittorio Foa). Ha contribuito alla storia albese della lotta di liberazione con Giustizia e libertà in Langa, nel 2015.

Chiara Colombini si è posta il compito di restituire prospettiva storica e profondità al dibattito pubblico sulla Resistenza, più in particolare sui partigiani. Sono loro il bersaglio grosso di una narrazione corrente che li dipinge superflui nella lotta per sconfiggere le armate naziste (e il multiforme apparato militare fascista) da essi condotta per di più con metodi subdoli o terroristici, agguati e imboscate nelle campagne, o uccisioni mirate, nel caso delle azioni dei Gap; quasi tiranni sui civili, dai quali pretendono di essere mantenuti, attirando per di più rappresaglie su degli innocenti. E, dopo la Liberazione, autori di vendette senza giustizia. Tutti, o quasi, comunisti mossi dall’intento di arrivare alla rivoluzione. Presunte verità che sarebbero state nascoste per decenni da coloro che sono stati chiamati, in tempi recenti, i guardiani della memoria.

Al «coro assordante», per prendere a prestito un’espressione dell’autrice, Colombini risponde riportando il lettore, in modo sintetico e allo stesso tempo puntuale, al contesto nel quale i partigiani imbracciano le armi e le usano contro i tedeschi e i fascisti, con l’appoggio della popolazione, pur «su un equilibrio delicato e fragile, che dev’essere continuamente rinegoziato». Nel Paese occupato e senza più Stato, considerato dai nazisti abitato da traditori e nulla più di una fonte di risorse e manodopera, una (nutrita) minoranza fa la scelta di opporsi con le armi: militari senza più esercito che sfuggono alla deportazione in Germania; soldati e ufficiali che al fronte, quello russo nel caso di Nuto Revelli, hanno conosciuto la brutalità nazista e la criminale negligenza fascista; oppositori di vecchia data e formata coscienza politica; giovanissimi che non rispondono ai bandi d’arruolamento di Graziani, uno dei maggiori boomerang nella breve storia della Repubblica di Salò. Donne, le più volontarie tra tutti.
Un complesso di esperienze che ha un denominatore comune, mette in evidenza Chiara: sono persone che non si tirano indietro, a rischio della vita. Esercitano la violenza, ma le loro «azioni sono una reazione a un contesto di violenza spietata che già c’è». La loro attività militare è la guerriglia (guerra asimmetrica, diciamo oggi) per forza di cose, ma è falso che sia senza peso alcuno sulle operazioni belliche: dicono il contrario l’appoggio materiale fornito dagli angloamericani, i rapporti dei comandi alleati e, ancor di più, tedeschi; il fatto che 125 città si liberino da sé, il 25 aprile e nei giorni successivi.

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I comandanti azzurri Piero Balbo (Poli) ed Enrico Martini (Mauri) ad Alba.14

La Liberazione porta al tema della «resa dei conti», a una polemica che ha portato ad appiattire l’insurrezione prima e i pur esecrabili fatti del Dopoguerra sull’etichetta di «giorni della vendetta», senza considerare, una volta ancora, il contesto di città abitate da folle abituate a freddo, fame, impiccati agli alberi dei viali. E, in seguito, di un clima nel quale si intrecciano un’epurazione all’acqua di rose, uno scenario di ingiustizia sociale, il timore che il fascismo rinasca. Allo stesso modo, denunciare l’esistenza di una visione della Resistenza «vincitrice», che avrebbe negato l’emergere di verità contrastanti con l’agiografia dominante, fa a pugni con la complessità – una parola chiave nel saggio – delle memorie della Resistenza. E con l’esistenza di un’ampia pubblicistica prodotta dai reduci di Salò.
Uno dei meriti del lavoro di Chiara Colombini è l’aver fatto emergere con chiarezza quanto sia anacronistico – o ipocrita, a essere più diretti – giudicare coloro che furono il nerbo della Resistenza usando, per esempio, la sacrosanta repulsione per le armi e l’orrore per la violenza, che il presente può permettersi proprio grazie al loro sacrificio.

Un altro pregio del libro è il far emergere agli occhi del lettore, nella densità delle sue circa 130 pagine più le note, il valore della ricerca storica, anche quella relativa ad aspetti locali, «fondamentale perché l’intero panorama (della Resistenza) venga ricomposto nelle dimensioni esatte, con le sue luci e le sue ombre»: la citazione è da Storia di una formazione partigiana di Mario Giovana, edito nel ’64. Alle persone che si mossero in quel «panorama» la democrazia italiana deve molto, se non tutto.

Paolo Rastelli

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