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Per Marisa Fenoglio, «scrivana di famiglia» e scrittrice di talento

Per Marisa Fenoglio, «scrivana di famiglia» e scrittrice di talento 1
Marisa Fenoglio

MEMORIA Era «l’ultima rimasta della famiglia di origine», come aveva più volte, in anni recenti, consuntivato: «una famiglia di cinque persone che dagli anni Venti del secolo scorso fino al 1957 ha abitato al numero 1 di piazza Rossetti, a pochi metri dal duomo di Alba».

Moltissimi ad Alba, e crediamo anche fuori dalla città, da tempo luogo duplice e allargato per via letteraria, non faticano a riportare questo inventario alla figura e alla voce della scrittrice Marisa Fenoglio: figlia del macellaio Amilcare e di Margherita Faccenda, sorella dei maggiori (di undici e dieci anni) Beppe e Walter Fenoglio.

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Marisa Fenoglio

Marisa Fenoglio è morta domenica 28 novembre, all’età di 88 anni, a Marburg in Germania, il Paese dove risiedeva da oltre sessant’anni. Ci era approdata al seguito del marito, l’ingegner Giuseppe Faussone, che su incarico di Michele Ferrero a metà degli anni Cinquanta era stato tra i fondatori dell’azienda tedesca della multinazionale dolciaria, allora al suo primo, per molti azzardato, passo oltre i confini italiani.

Era la Germania Ovest profonda, guasta, ansiosa di rimozione e promozione del secondo Dopoguerra: uno stacco e un confronto geografico, e un groviglio culturale e psicologico, enormi, anche per un italiano che emigrasse in condizioni materiali meno precarie di altri. «Soffrire», aveva scritto, «non per problemi di pane quotidiano, di posto di lavoro, di discriminazione sociale, no! Soffrire come un cane nel benessere, per incompatibilità tra persona e luogo, per mancanza di storia, di ambiente urbano, per non avere sottomano nulla di vecchio, di mio, di nostrano… cose così… sciocchezze in fondo».

Dal suo «vivere altrove», dalla sua condizione di esule, borghese trapiantata e aliena per forza, Marisa Fenoglio aveva tratto non soltanto un fortunato memoir pubblicato con Sellerio nel 1997 (e oggi in catalogo da Rubbettino): aveva rivelato, anzi confermato, una scrittrice autentica, arrivata formalmente tardi al debutto, ma tutt’altro che priva di stile e di «giustificazione», per usare una parola cara a suo fratello Beppe. «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita», aveva detto il poeta Czeslaw Milosz. Una frase (una sentenza, direbbe qualcuno) spesso citata come battuta, ma di analisi decisamente complessa.

Per Marisa Fenoglio, «scrivana di famiglia» e scrittrice di talento
Nello scorcio tra piazza Rossetti e piazza Duomo, sullo sfondo, la casa dove abitarono i Fenoglio

Nella famiglia Fenoglio di Alba, Cuneo, gli scrittori nati (e riconosciuti con tempi, modi, vocazioni diversi) sono stati persino due; e Marisa stessa si era assunta il compito di analizzare la «fine», almeno del suo nucleo di origine, alla luce dell’inattesa e insopprimibile rivelazione del fratello. Era nato così, composto sulla scia di testi scritti in principio a uso interno, familiare, Casa Fenoglio, il libro pubblicato per primo (nel 1995, da Sellerio), in realtà sopravanzando Vivere altrove, e facendogli strada.

Ma subito ci si era accorti che Casa Fenoglio non era affatto una raccolta di aneddoti e istantanee intorno al più famoso e misterioso Beppe: il libro, cui magari ci si accosta sulle prime proprio per saperne di più dell’autore di Una questione privata, parla d’altro. È un romanzo di formazione calato in un ambiente umano descritto a cerchi concentrici (una famiglia, una piazza, una città di provincia, un’epoca storica e sociale) visto con gli occhi di una testimone che, in età matura, riesce a esercitare un doppio sguardo: diretto e obliquo insieme, con uno stile fatto di aggraziata precisione, e non privo di ironia.

La cultura scientifica (era laureata in biologia) aveva forse affinato in Marisa Fenoglio una naturale inclinazione all’osservazione e alla classificazione (di suo fratello parlava come di un «mutante» sviluppatosi in un terreno di coltura che non ne ispirava l’attesa). Un altro elemento presente nel suo scrivere, e nel suo rapportarsi con le cose, è la sensibilità verso i suoni, verso le sonorità in genere. E la musica, ascoltata e cantata anche in questo caso non come semplice passatempo, era stata la via di accesso a un mondo diverso e nuovo.

È la chiave della lingua: «La mia integrazione sarebbe passata attraverso i suoni», aveva un giorno compreso: la lingua come patria possibile per chi è destinato a un  (il titolo dell’ultimo libro, edito da Nutrimenti), ma che infine ha acquisito una identità mobile, il senso di un «destino a venire», che anche altrove «sarà primavera» e ci saranno «case oggi neppure costruite».

La casa (parola quanto mai vasta) è di certo un’altra figura chiave, che riecheggia in questo autoritratto da scrittrice che si scopre tale: «Scrivevo così, come una casalinga fa le sue torte. Le faccende domestiche non mi avevano mai impedito di pensare anzi, le due cose si nobilitavano a vicenda».

Così, torta dopo torta, la «scrivana di famiglia» (come la definì, associandola a sé, il fratello Beppe nei suoi Appunti partigiani) aveva costruito la sua identità di autrice. Negli ultimi anni era ritornata a verificare le affinità con il suo fratello più grande, già peraltro oggetto di studio (a opera di Mara Cambiaghi); era ritornata con la mente in piazza Rossetti 1, con il monologo teatrale Uno scrittore in famiglia (2015).

E si era sempre sentita parte di una scia composita, fatta di familiari, amici, lettori: «Se la parola è memoria e raccontare è rivivere, mio fratello ci ha regalato un patrimonio comune di ricordi», aveva tenuto a riconoscere a un convegno, cui non era voluta mancare. Ed è questo forse il miglior viatico, da non scordare, per attraversare, purtroppo e per poco senza la sua compagnia, il prossimo centenario fenogliano.

Edoardo Borra

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