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Alba Doc, l’etichetta che non decolla

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VITICOLTURA La capitale delle Langhe vanta una denominazione con il suo nome: Alba Doc, semplice da ricordare ma tuttavia, quasi sconosciuta. Se per Barolo e Barbaresco è più famoso il vino che non il paese, per Alba non è così.

Il disciplinare di produzione prevede l’uso di Nebbiolo, dal 70 all’85 per cento, e Barbera, dal 15 al 30. Inoltre, nella percentuale massima del 5 per cento, possono essere usati altri vitigni a bacca rossa, coltivati in Piemonte. I confini sono vasti e comprendono l’intero territorio di cinquantacinque Comuni tra Langa, Roero e Monregalese, fino a Bastia Mondovì. L’altitudine massima consentita è 580 metri, mentre la gradazione alcolica minima da raggiungere è 12,5. I viticoltori possono effettuare la scelta vendemmiale e usare la denominazione Alba Doc anche in vigneti iscritti a produrre Barolo, Barbaresco, Roero, Nebbiolo e Barbera d’Alba. L’invecchiamento minimo è pari a 17 mesi, 9 dei quali in botti i rovere, mentre, per ottenere la menzione Riserva bisogna salire, rispettivamente, a 23 e 12.

Ad agosto, una bottiglia dell’azienda agricola dell’albese Luigi Drocco è stata premiata al festival del vino di Merano: è il primo riconoscimento per la denominazione. «Il vino porta il nome della città: la nostra cantina è stata la prima a rivendicare la Doc. Per noi è una grande soddisfazione, ma purtroppo questo vino non è valorizzato come dovrebbe», spiega l’imprenditore.

I numeri lo dimostrano: nel 2021, solo sette viticoltori l’hanno utilizzata, dieci fra gli imbottigliatori. Sono stati prodotti 559 quintali di uva trasformati in 392 ettolitri cioè 26.708 bottiglie. Un aumento del 57,1 per cento, rispetto al 2020, ma dal consorzio di tutela Barolo, Barbaresco, Alba e Dogliani non usano mezzi termini: «È una denominazione morta, ma con una nome bellissimo. Dovremmo interrogarci sul perché sprecarlo così». La produzione può variare, «ma continuiamo a parlare di cifre insignificanti. Troppo simile al Langhe Rosso, così com’è la menzione non ha molto senso. A meno che non desti l’interesse di due o tre grandi cantine, quelle che possono spostare gli equilibri».

L’etichetta è stata approvata nel 2010, «come tutte le cose il progetto iniziale era giusto: serviva una marchio di qualità per la zona non compresa nei disciplinari di Barolo, Barbaresco e Roero. Poi, però, si è allargata sempre di più, addirittura fino al Monregalese. Prima ancora, si parlava di fare un’Alba Doc che raggruppasse Dolcetto d’Alba, Barbera d’Alba e Nebbiolo d’Alba. Se ne sarebbe potuto parlare, ma la politica ha scelto in modo diverso. Anni fa, l’Alba Doc compariva a ogni tornata elettorale. La verità è che la denominazione funziona se qualcuno la produce: la nascita di una Doc deve adattarsi a cosa viene fatto, non il contrario».

Massimo Penna, viticoltore di Madonna di Como, è uno dei difensori più convinti di questo vino. Ricorda che «il progetto cominciò a prendere forma nel 1985 con il compianto Giuseppe Rivetti, consigliere comunale e presidente di zona Coldiretti. Lo scarso interesse da parte di storiche aziende albesi è stata la maggiore difficoltà incontrata sul percorso e ha generato scetticismo da parte delle istituzioni». Nel 1999 Penna incominciò a partecipare alle riunioni, «convinto della grande opportunità. Manca ad Alba una cantina comunale, eppure già allora c’erano 850 ettari vitati, ora saliti a poco meno di mille. Una superficie già all’epoca frammentata, con circa 200 ettari a Moscato, 200 a Dolcetto, 200 a Barbera e 200 a Nebbiolo: nelle zone di Barolo o Barbaresco si arriva al 70 per cento di vigneti per un’unica varietà. Questa situazione favorisce la comunicazione e le strategie».

Dopo varie discussioni «si decise di proporre una Doc di qualità che fosse alternativa a quella Langhe, a base Nebbiolo e Barbera. Arrivarono valanghe di richieste di adesioni, da Comuni e organizzazioni di produttori; la pressione, anche politica, fu forte e, per evitare scontenti, i confini dell’Alba persero quell’unicità che era nostro intento iniziale. Ma è anche vero che la nostra zona è un’area dal confine difficilmente individuabile».

Il riconoscimento della prima annata avvenne quando il Comune di Alba e il consorzio si fecero portavoce della richiesta al Ministero. Continua Penna: «Sapevo che l’Alba non avrebbe portato successi immediati, ma ho sempre speso grandi energie per produrre questo vino. Dalla mia cantina usciranno più di diecimila bottiglie dell’annata 2021: non molte, ma danno una grande soddisfazione, anche economica».

Giuseppe Rossetto era sindaco quando iniziò l’iter per il riconoscimento. «Sentivamo il desiderio di valorizzare le nostre produzioni, agganciandoci alla nostra città, conosciuta in tutto il mondo. I produttori più famosi fanno però fatica a crederci, impedendo la crescita della Doc». Le decisioni amministrative non bastano, «le cose si muovono se gli imprenditori si adoperano e investono. Per tracciare un parallelo, anche nel caso del riconoscimento Unesco vedevo tanti scettici, ma ora sono saliti tutti sul carro del vincitore. Scelte lungimiranti hanno bisogno di tempo, con l’Alba Doc sono convinto si potrà svoltare. Se il problema è il disciplinare troppo esteso, allora bisogna affrontare la questione e modificarlo».  

Davide Barile

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