Dario Voltolini: «Non ci ho messo 40 anni a elaborare il lutto, ma a fidarmi della lingua»

La libreria Milton ospita Dario Voltolini, candidato allo Strega 2024

ALBA Martedì 30 aprile, alle 18.30, la libreria Milton ospiterà l’incontro con Dario Voltolini nella sede Alec in via Vittorio Emanuele 30. Lo scrittore torinese presenterà il suo ultimo libro, Invernale, proposto al premio Strega 2024 da Sandro Veronesi ed entrato nella dozzina finalista.

Edito da La nave di Teseo, in 144 pagine analizza il rapporto tra il ventenne Dario e il padre macellaio Gino, a partire da un episodio drammatico: un batterio s’insinua nel sangue del genitore in seguito a un incidente al banco di Porta Palazzo.

È l’inizio di un lento cammino verso la malattia, inquadrato dall’occhio del figlio con una scrittura tagliente come il coltello che impara a usare per dare una mano alla famiglia. Seguirà il tentativo di cura in uno dei centri all’avanguardia per l’epoca: Villejuif, vicino Parigi.

Voltolini, negli ultimi anni sono usciti molti libri sulla scomparsa del padre, con toni tragici o drammatici. In Invernale il suo sguardo sembra più pacificato, è così?

«Volevo in qualche modo rendere onore a mio padre con un libro emotivamente e letterariamente dedicato a lui. L’idea era di mostrare come una persona molto dedita alle cose pratiche a un certo punto abbia avuto un inciampo e siano emersi aspetti interiori e spirituali di grande rilievo».

Un punto di contatto tra Gino e il Dario personaggio, nonostante i caratteri e le età diverse, sono le partite di calcio. Una passione rimasta anche nella realtà…

«Sì, anche se lui era tifoso della Juventus, io del Torino. Guardavamo le partite insieme, ma lui vedeva cose nascoste, gli veniva dall’esperienza nelle giovanili della Juve. All’epoca non c’erano le riserve che subentravano quando qualche titolare si infortunava, per cui non ha mai giocato in serie A, però si allenava con giocatori come Sivori o Charles. Con il lavoro ha dovuto poi smettere, gli impegni non erano compatibili».

Durante la malattia anche lei si è trovato a provare il mestiere di macellaio a Porta Palazzo. Che cosa le è rimasto di quell’esperienza?

«Mi rimane l’essere carnivoro. A parte questo, vivere il mercato dal di dentro mi ha arricchito ed è qualcosa che altri non hanno. Gli scrittori facilmente non fanno altri lavori al di fuori della scrittura o della letteratura. I lavori che ho fatto, anche se brevi, mi sono serviti per i miei libri. Poi non era un semplice impiego da commerciante, perché il mercato ha delle sue caratteristiche particolari. Porta Palazzo era una specie di organismo, una Macondo in cui tutti si conoscevano, non era di certo la Torino che normalmente si immagina».

Un momento importante, dal sapore di commiato, è il pranzo con i parenti in Langa…

«Sì, per i 50 anni di papà mia mamma aveva organizzato un pranzo con i parenti, evidentemente perché sarebbe stata l’ultima volta. Abbiamo fatto una tavolata che non era proprio allegra, ma per certi versi sì, perché amorevole: un momento intenso e contraddittorio. Noi venivamo spesso in Langa e Roero dato che avevamo parenti a Sommariva Perno e Pocapaglia. Mi ricordo che ci chiamavano quando ammazzavano il coniglio».

Il processo creativo è stato diverso rispetto ai libri precedenti?

«La questione è centrale: non ci ho messo 40 anni a elaborare il lutto, ma a fidarmi della lingua. La sfida è stata avere una capacità narrativa e linguistica all’altezza, che ho sentito di avere solo adesso. Il libro è stato scritto in poche settimane, dal 2 giugno al 24 luglio, iniziando nel giorno del compleanno e finendo in quello della morte. Mi sono sentito un po’ come un sassofonista jazz quando improvvisa: una volta che ha un gruppo, un tema e una confidenza nello strumento poi va senza fermarsi».

Lorenzo Germano

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