Al Festival di Venezia c’è attesa per il film di Luca Guadagnino

Al Festival di Venezia c’è attesa per il film di Guadagnanino

VENEZIA Grande attesa al Lido per Luca Guadagnino, che porta al festival Queer che vede Daniel Craig, l’ex James Bond, in un cambio radicale d’immagine nei panni di William Lee, un americano espatriato, omosessuale, che vive a Città del Messico negli anni Quaranta, e vagando tra i bar della città incontra l’ex marinaio Eugene Allerton, interpretato da Drew Starkey, celebre per la serie Netflix Outer Banks e sviluppa per lui una passione ossessiva.

Al Festival di Venezia c’è attesa per il film di Guadagnanino

Luca Guadagnino era un adolescente quando per la prima volta lesse il romanzo intitolato Queer di William S. Burroughts, scritto nel 1952 ma pubblicato nel 1985 perché considerato troppo scandaloso e controverso, troppo pieno di omosessualità. Ma il regista ne viene folgorato da quello scrittore appartenente alla beat generation e dopo trent’anni, una candidatura all’Oscar per il film Chiamami col tuo nome e il successo avuto con Challengers, ha deciso di adattare il romanzo per il cinema. Queer, film in concorso è ambientato nel 1950, girato quasi interamente negli studi di Cinecittà, dove è stato ricostruito molto fedelmente un quartiere della Città del Messico, con alcune e brevi scene esterne girate in Sicilia e in Messico.

William Lee è un americano sulla soglia dei cinquanta espatriato a Città del Messico. Passa le sue giornate quasi del tutto da solo, se si escludono le poche relazioni con gli altri membri della piccola comunità americana. L’incontro con Eugene Allerton, un giovane studente appena arrivato in città, gli mostra per la prima volta la possibilità di stabilire finalmente una connessione intima con qualcuno. Lee ama Allerton, Allerton ama Lee: saranno in grado di incontrarsi nonostante tutti i passi falsi e le paure che agiscono su entrambi nel loro viaggio picaresco nel Sud America proiettato dalla mente di Burroughs? Un film dove le scene di sesso sono numerose ma che Guadagnino reputa essere la sua pellicola più personale, «ma anche il più esplicito, audace e astratto, sospeso tra fantasie, allucinazioni e realtà», come dichiara il regista stesso.

Harvest, film in concorso di Athina Rachel Tsangari che a Venezia era stata nel 2010 col film Attenberg che valse la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile all’attrice Ariane Labed. Oggi al Lido porta una storia ambientata in un remoto villaggio della campagna inglese del tardo Cinquecento, al termine di quella rivoluzione agricola che trasformò i terreni da beni collettivi a beni posti sotto il controllo diretto dei proprietari terrieri. Nel corso di sette giorni allucinati assistiamo alla scomparsa di un villaggio senza nome in un’epoca e un luogo indefiniti. In questa tragicomica interpretazione del genere western, Walter Thirsk, uomo di città datosi all’agricoltura, e l’impacciato proprietario Charles Kent, suo amico d’infanzia, stanno per affrontare un’invasione dal mondo esterno: il trauma della modernità. Per la regista, con questa pellicola, si ha la possibilità di «esaminare il momento in cui tutto ha avuto inizio per noi che nel XXI secolo siamo eredi di una storia universale di perdita della terra. Per me, Harvest è un film sulla resa dei conti. Cosa abbiamo fatto? In che direzione stiamo andando? Come possiamo salvare il suolo, il sé all’interno dei beni comuni?». Harvest si svolge in un mondo liminale, e illustra le prime crepe della rivoluzione industriale, che in realtà rivoluzione non è stata. Una comunità agricola viene sconvolta da tre tipi di forestieri: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti.

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«Il futuro non fa parte della storia: accadrà fuori dallo schermo, in un mondo che non siamo destinati a vedere. Non ci sono eroi. Solo persone comuni e imperfette», commenta la regista, che per esaltarne la meticolosa ricostruzione di ambienti e atmosfere dell’epoca, sceglie di girare il film in 16mm con una grana evidentissima che rende molto bene l’intento. Tra i protagonisti troviamo Caleb Landry Jones, reduce della splendida interpretazione in Dogman proprio a Venezia l’anno scorso, Harry Melling e Rosy McEwen.

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Il regista Asif Kapadia col cast del film 2073 durante la prima del film 2073

È sbarcato al Lido anche il regista inglese di origini indiane Asif Kapadia, premio Oscar per il docufilm Amy, che porta al Festival il suo nuovo lavoro per la sezione fuori concorso 2073. Un documentario fuori dagli schemi che dal futuro ci parla delle difficoltà che guastano il nostro presente. 2073 è pura fantascienza dell’orrore. Un assaggio del mondo che verrà se non ci decidiamo a fare qualcosa. Ghost (interpretata da Samantha Morton) vive isolata dal sistema in una distopica New San Francisco nell’anno 2073. Il mondo è controllato da ultraliberisti, dittatori e tecnogeek. Non c’è dissenso, non c’è libertà. Tutti sono monitorati, la gente continua a sparire e Ghost ha i giorni contati. Grazie a un misto di filmati d’archivio e finzione narrativa a cavallo tra generi diversi, Ghost è testimone dei terrificanti pericoli che ci attendono: il declino della democrazia, l’ascesa del neofascismo, il disastro climatico e il dilagare dei sistemi di sorveglianza. Questa non è fantascienza. È il mondo in cui viviamo. 2073 parla del senso di terrore per ciò che sta accadendo e che sta diventando normale in tutto il mondo. «Il film è iniziato dopo che nel Regno Unito menzogne e corruzione hanno portato alla Brexit e ho sentito il dovere di fare un film per capire perché il mondo sembrava muoversi nella direzione delle bugie, dell’autoritarismo e della violenza», dichiara il regista, che ha intervistato giornalisti in tutto il mondo trovandoli d’accordo sul fatto che stiamo vivendo una tendenza globale, un indebolimento della democrazia, e la tecnologia ha un ruolo enorme, anche nell’accelerare la distruzione dell’ecosistema del pianeta. 2073 è nato proprio grazie a quelle interviste e ricerche durate quattro anni che Kapadia ha raccolto, con l’unico obiettivo di mettere in risalto molte problematiche e molte realtà nazionali complesse in un singolo film di forte impatto cinematografico.

Walter Colombo, inviato a Venezia

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