di Chiara Nervo
SERVIZIO – L’Italia del cibo continua a registrare numeri da record. Nonostante un contesto economico incerto, il settore alimentare ha chiuso il 2024 con un +5,9% di crescita. E anche per il 2025 e per il 2026 le previsioni restano ottimistiche, con rispettivamente un +4,6% e un +4,4% di aumento del fatturato. La locomotiva è l’industria, ma il carburante è doppio: consumi interni in lieve ripresa e un export che non smette di crescere.
È quanto emerge dall’undicesima edizione del Food industry monitor, l’osservatorio curato dall’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, in collaborazione con Ceresio Investors, presentato a Pollenzo lo scorso 26 giugno. Dopo i saluti istituzionali del rettore Nicola Perullo e di Gabriele Corte, di Banca del Ceresio, il responsabile scientifico Carmine Garzia ha illustrato i dati principali del rapporto.
La forza dell’export
In chiusura, come da tradizione, Carlo Petrini, fondatore di Slow food, ha tirato le fila: «Un sistema agroalimentare forte è quello che sa unire etica, impresa e visione». Lo studio ha analizzato oltre 860 aziende, con un fatturato complessivo di 87 miliardi di euro, suddivise in quindici comparti differenti del settore alimentare. A fare da padrone è l’export.
Nel 2025, è atteso un balzo del +7,3%, poco sotto l’ottimo +8,2% del 2024. Tra i protagonisti assoluti c’è il vino, che da solo vale oltre 8 miliardi di euro in esportazioni, con quasi un terzo diretto verso gli Stati Uniti. E qui arriva la prima nube all’orizzonte: le politiche doganali Usa potrebbero presto cambiare scenario.
Ha spiegato Garzia: «Solo alcuni grandi player possono permettersi una produzione locale, ma per molte imprese italiane l’unica strada è investire direttamente sui mercati esteri». Ma c’è un dato che spicca su tutti: il 67% delle aziende del comparto cibo è a conduzione familiare. E non solo resistono: spesso ottengono risultati migliori. In effetti la redditività è mediamente più alta nelle imprese a guida familiare, soprattutto quando la governance è condivisa e ben strutturata, così da garantire un’impostazione chiara ed efficiente per il funzionamento di tutti i comparti.
Abbiamo raccolto storie di giovani imprenditori del nostro territorio.
Elena Sarotto, che nell’azienda di famiglia a Neviglie ha realizzato sé stessa

LA STORIA / 1 – Come si lavora in un’azienda familiare e cosa rappresenta, in termini d’impresa, il passaggio di consegne tra generazioni? L’abbiamo chiesto a Elena Sarotto, 27 anni, da due in azienda a Neviglie, dove si occupa del settore commerciale e amministrativo per mettere a frutto la laurea conseguita a Torino. «In azienda, mi occupo di più cose, com’è logico. Seguo il mercato italiano, quello di lingua tedesca (Germania, Austria e Svizzera) e mi occupo anche degli acquisti», esordisce la giovane imprenditrice.
Elena, come si lavora in famiglia?
«Posso dire di essere fortunata, perché in questo lavoro non si finisce mai di imparare: le cose cambiano velocemente e poter contare su due figure di riferimento, come i miei genitori, è molto importante e dà sicurezza. Posso dire di essere cresciuta in azienda, a tutti gli effetti. Quando ero studentessa, lavoravo d’estate o durante le fiere e gli eventi. Per me, è molto naturale essere entrata nella squadra. È però necessario trovare una dimensione in cui far convivere al meglio il lavoro e la propria sfera privata. Non è sempre facilissimo, ma si può fare senza alcun dubbio».
È soddisfatta del suo ruolo?
«Certamente. Sono felice e consapevole di vivere dove ho sempre desiderato essere».
Lei è una giovane imprenditrice nel comparto vitivinicolo: quanto sente il legame con la terra e con l’essere contadini?
«Sento molto questo legame con la terra. La nostra cantina ha origini contadine, delle quali siamo tutti consapevoli e orgogliosi. È un’essenza tramandata dai fondatori fino a oggi, generazione dopo generazione. Non lavoriamo per compartimenti stagni e incontriamo tutte le figure professionali che operano con noi. Anche io, specialmente durante la vendemmia, vado in vigna o al ricevimento delle uve, così da incontrare i conferitori. Sono prassi che mi legano molto al territorio, un luogo con cui non ho perso il contatto, dove ho le mie radici e a cui sento di appartenere. Insomma, vorrei rimanere qui per sempre».
Beppe Malò
Per Adriano Moretti, il Roero è stato un vero richiamo

LA STORIA / 2 – «La mia vita gira intorno al vino. Non sono il classico vignaiolo con un curriculum da enologo, ma uno che si rimbocca le maniche. Vivo e respiro nel Roero ogni giorno, trasformando questa terra in bottiglie», così si presenta Adriano Moretti, produttore di Monteu, dove porta avanti l’azienda Bajaj. Adriano è entrato nel 2014, dando vita a un percorso di crescita che l’ha portato ad affermarsi come cantina di riferimento nei vini autoctoni. Prima che un produttore, si definisce un appassionato, impegnato in ogni fase della vinificazione, con una presenza costante.
Adriano, cosa significa per lei l’impegno in azienda?
«Per me, il vino non costituisce un lavoro, ma significa uno stile di vita. Prima di diventare vignaiolo, ho provato un po’ di tutto: cameriere, barista, modello e persino aspirante politico. A un certo punto, avevo in mente di mollare tutto e aprire un locale in Australia con alcuni amici».
Ha però resistito a questa tentazione.
«Per fortuna, ho guardato con più attenzione a ciò che avevo sotto il naso: il patrimonio di storia, natura e tradizione della mia famiglia. E così ho deciso di fermarmi e mettere radici, in senso letterale. Non è stato facile, soprattutto con mio padre Giovanni, che da me ha sempre preteso moltissimo, ma che non mi ha mai fatto mancare il sostegno, insieme a quello di tutta la mia famiglia. Oggi mi occupo dell’azienda a tutto tondo, dai lavori in vigna al marketing, curando ogni dettaglio con la dedizione di chi sta lavorando per qualcosa grande».
È stato lei a scegliere di usare le anfore in terracotta per l’affinamento dei vini, Adriano?
«Sono stato fra i primi nel Roero: oggi il 60 per cento della mia produzione passa attraverso queste bellezze straordinarie. L’anfora esalta la freschezza e il carattere autentico del vino, lasciandolo libero di essere sé stesso, proprio come me».
Beppe Malò
Valentina Allaria, giovane casara autodidatta

LA STORIA / 3 – Il più grande allevamento di pecore delle Langhe è alle porte di Murazzano e racconta una storia che inizia quando, anni fa, Franco Allaria e la moglie decisero di comprare una cascina nella quale allevare una ventina di pecore per passione. Oggi quella cascina è diventata l’azienda agricola Il forletto e i capi sono circa 640, numeri importanti se si considera che la razza ovina delle Langhe è da tempo a rischio di estinzione, con circa 1.500 capi divisi tra una ventina di allevatori in totale.
A condurre Il forletto oggi c’è, per la parte legata all’allevamento, Franco Allaria, coadiuvato da due dipendenti per pascolo e mungitura, mentre la produzione e la vendita dei formaggi è affidata alle mani, all’impegno e alla grande inventiva della figlia Valentina, giovane casara autodidatta.
«Ho imparato da mia mamma, che a sua volta aveva visto come la nonna faceva il formaggio. Ho poi frequentato un corso sui pecorini all’Istituto lattiero-case-
ario di Moretta e ho approfondito gli studi sui libri», racconta Valentina, che ha potuto anche fare affidamento sulla formazione scolastica avuta frequentando l’Istituto alberghiero.
Per il pascolo, l’azienda ha a disposizione 13 ettari recintati attorno alla cascina e altri 8 a quattro chilometri di distanza. «L’allevamento a pascolo ha un doppio vantaggio: l’alimentazione degli animali è più varia e ciò influisce positivamente sulla qualità dei formaggi, mentre il pascolo permette una maggior tutela del territorio, del paesaggio e della biodiversità», afferma Valentina.
Per una casara che alleva solo pecore di Langa, nutrendole con l’erba dei prati attorno a casa, i formaggi non possono che essere a latte crudo. Oltre alla classica tuma (un tempo immancabile nelle cascine e su tutti i mercati della zona), Il forletto produce anche pecorino stagionato, oltre a bruz (un’al-
tra rarità in via di estinzione), ricotta, gelati e anche yogurt. I canali di vendita sono quelli tradizionali e diretti, guardando in faccia gli acquirenti e magari raccontando loro la storia dell’azienda.
Tre mercati alla settimana: Carrù, Murazzano e Dogliani e qualche fiera alla domenica, privilegiando le rassegne che valorizzano le piccole produzioni locali. Oppure c’è il punto vendita vicino al caseificio, nel quale vengono anche proposte delle degustazioni (Valentina è anche assaggiatrice Onaf), magari abbinate a visite all’azienda.
Corrado Olocco
