L’idea è questa: spostare la manodopera all’estero per tagliare le spese e risanare i bilanci, lasciando la parte amministrativa a casa. Ancora il tanto vituperato caso Fiat? Questa volta no, dato che il campanello di allarme potrebbe interessare la zona dell’albese.
Alla Sito di Monticello, una delle realtà più longeve e meglio radicate nella zona, con un parco clienti che sfiora quota cinquemila e che risulta tra le meglio globalizzate a livello regionale (un centinaio di dipendenti, uno stabilimento produttivo di proprietà in Polonia da trecento dipendenti, una sede commerciale negli Stati Uniti, un’articolata rete di distribuzione in Australia e Giappone, oltre naturalmente all’Europa), sarebbe pronta ad attuare quello che potrebbe definirsi il “modello Marchionne”.
Dopo aver messo una decina di operai in cassa integrazione ordinaria nella sede di Monticello, la ditta, che lamenta da diversi anni un calo nella produzione di silenziatori (marmitte) per moto, a fronte di un mercato bloccato che non permette di ritoccare i prezzi e che si contrappone al crescente aumentare delle spese, sembrerebbe in procinto di delocalizzare la parte produttiva in Paesi europei più convenienti (ma non la Polonia), dando così adito alle lamentele già in precedenza esposte su scala nazionale dal manager della Fiat.
«Il costante calo delle immatricolazioni non ci ha dato una mano, e produrre con queste spese è diventato assai duro, visto che il nostro prodotto viene assemblato manualmente», sostiene Sergio Leone, direttore dello stabilimento del gruppo industriale di Monticello. «E per sanare i bilanci il nostro futuro sembra sempre più rivolto verso la produzione all’estero, dove i costi sono molto più bassi, e verso nuovi mercati emergenti, America del Sud e continente asiatico, dato che la vecchia Europa risulta ormai ferma».
I sindacati dicono di essere a conoscenza del progetto da alcuni anni e di aver cercato di informare l’opinione pubblica, tramite i giornali, e gli operai, attraverso l’organizzazione di almeno otto assemblee sindacali, praticamente ogni volta deserte. «Forse non hanno capito quali rischi corrono», ha detto il responsabile Fiom di zona, Giuseppina Mosca. «A parte qualche sporadico caso, si può dire che nessuno sembri essere a conoscenza della situazione e di quelle che potrebbero essere le conseguenze di scelte come questa per i lavoratori e per il territorio». E le istituzioni? La Confindustria cuneese e la Provincia non rilasciano dichiarazioni.
Cristian Borello