Beppe Pepe, un artista albese e il mondo dalle porte socchiuse

Varcare la soglia dell’atelier di San Rocco Seno d’Elvio significa immergersi nel mondo della juta, della carta da pacchi, degli acrilici e dei pigmenti in polvere estratti dai canyon di Rossignol, Provenza. I lavori di Beppe Pepe trasmettono istintività – la necessità viscerale di esprimere il mondo in un gesto – utilizzando un setaccio o compiendo un frottage. Un’evocazione dell’arte povera, concettuale. Su una tela, il collage di Nuovi argomenti, la rivista fondata da Moravia, Pasolini e Carocci suggerisce l’impegno nelle opere, dagli anni ’80 a oggi.

Come nasce la tua voglia di dipingere?

«Sono nato a Castel di Tusa, nel ’55. A sei anni seguii mio padre: decise di emigrare al Nord con la famiglia. Una volta ad Alba, mi trovai a contatto con gli stessi problemi affrontati oggi dagli extracomunitari: emarginazione, razzismo. Alcuni ragazzi del Sud reagivano al disagio pestando la gente o derubandola; io, data la mia indole timida, mi isolai per disegnare. Sono autodidatta, ho mai studiato arte. Ma da sempre vivo di quadri e per passione (per sicurezza) cucino in ospedale per i malati: essere cuoco mi appaga dal punto di vista spirituale, ma penalizza la mia reputazione da artista».

Quale è stata la chiave che ti ha consentito l’ingresso nell’universo artistico?

«La Rondine chiama fu una mostra collettiva organizzata ad Alba nel 1990, da Horst Barthel, un ragazzo di Marburg. Il suo obiettivo consisteva nel dare un seguito alla corrispondenza tra artisti che Pinot Gallizio attuò per primo. Il pittore albese ospitò in Italia i fiamminghi e gli scandinavi del gruppo Cobra, Barthel invece invitò ad Alba alcuni artisti tedeschi. Dopo quell’esposizione, per me la strada fu un poco più in discesa: organizzai mostre in Germania e Italia. Poi, di recente, con le mie installazioni ho partecipato a tutte le edizioni di Collisioni e collaborato con vari artisti del territorio».

Che cosa è che conta nel mondo dell’arte?

«Noto con un certo rammarico che nell’universo artistico conta più l’autopromozione, l’eccentricità e l’egocentrismo rispetto all’opera in sé. Chi non si vende, non può sfondare; sottostando a queste regole, il concetto di arte è perduto. Tutto diviene un calcolo – la spontaneità passa in secondo piano – il contatto giusto supera l’idea di creazione. Quindi per un artista autodidatta-operaio le porte non sono spalancate, ma socchiuse».

Marco Viberti

Banner Gazzetta d'Alba