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Giovanni Trinchero, martire del ’44

CERESOLE In occasione della cerimonia in omaggio ai dieci giovani trucidati a Ceresole dai nazifascisti, pubblichiamo volentieri il ricordo di uno di essi, Giovanni Trinchero, scritto dal suo nipote e omonimo, in occasione del 79° anniversario della sua morte, avvenuta il 22 luglio 1944.

Mi è parso giusto onorare la figura di uno zio, caduto durante la lotta contro il nazifascismo, insieme a nove suoi compagni. Sono nato nove anni dopo la sua morte, ma per scriverne la storia mi vengono in aiuto le testimonianze dei miei genitori.
 Barba Giuanin nacque l’11 ottobre del 1916, sesto tra i fratelli e le sorelle di mio papà. Gli venne dato il nome di suo padre, mio nonno, assente alla sua nascita perché impegnato con il regio esercito sui fronti della prima guerra mondiale. La famiglia Trinchero non poteva perdere la tradizione del nome Giovanni. La famiglia era di origine contadina, gente abituata da sempre a faticare, a fare di ogni necessità virtù e a trarre da ogni insegnamento un valore. Mio padre ricorda questo suo fratellino minore come il più cagionevole in salute, ma questo non impedì a Giuanin di sviluppare doti di sensibilità e di pazienza speciali. Papà ricorda con quale cura ammaestrava i buoi e come gli piacessero le cose belle e fatte bene. Amava la musica della banda del paese. Insieme alla famiglia tutta, oltre alla terra, coltivava una forte passione morale e civile, nutrita di profonde tradizioni cattoliche e si impegnò affinché la piccola cappella della borgata fosse eretta a parrocchia (1937). Due delle sorelle di Giovanni divennero suore del Cottolengo mentre il nazismo diffondeva le sue eresie. Giovanni, forte della sua fede cattolica, sceglieva di far parte dell’Azione cattolica, in un periodo nel quale esibire la tessera di un’associazione cattolica era compiere una scelta reazionaria. Credo che barba Giuanin del rivoluzionario avesse ben poco. Mio padre, Enrico, venne internato in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 e ricorda con commozione le poche righe di corrispondenza ricevute da questo fratello minore, che ne testimoniano tutta la sensibilità. Giovanni scriveva: «Invidio voi che siete lì, subite ogni umiliazione e non potete opporvi. Qui succede di tutto; ogni scelta diventa difficile; con la Repubblica di Salò, noi, ma anche i partigiani, non sempre ci si comporta secondo principi giusti e corretti. Cercherò di mantenere la mia libertà come mi suggerisce la mia coscienza cristiana».

Di quel fatidico 22 luglio 1944, fu testimone oculare mia madre, Adelaide. Giungendo quel mattino da cascina Franca attraverso cascina Disastro, per recarsi nella borgata per la cottura del pane, vide quel giovane vicino di casa che conosceva molto bene, e assistette al presentarsi nel cortile della cascina di una pattuglia di nazisti, accompagnati dai repubblichini in rastrellamento. Barba Giuanin uscì di casa cambiato per la Messa prefestiva, con le mani alzate in segno di resa,permettendo così ai suoi fratelli e agli altri giovani del circondario di mettersi in salvo, fuggendo attraverso i campi. Mia madre vide la casa messa a soqquadro, lui malmenato, bastonato, incamminarsi scortato dalla pattuglia di armati verso il paese. Della cronaca completa di quella triste giornata per il paese e delle ultime ore di vita di questo mio zio fu testimone l’arciprete don Cordero nel suo diario, reso pubblico nel libro scritto da monsignor Grassi, vescovo di Alba, La tortura di Alba e dell’albese.

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