Ultime notizie

Terzo settore. Una dura realtà dietro ai numeri dell’Istat

Egregio Direttore, l’11 luglio sono stati presentati i primi risultati del nono “Censimento delle istituzioni no profit” realizzato dall’Istat. Censimento che conferma l’importanza e il peso del settore per la tenuta economica e lo sviluppo sociale del Paese. Al 31 dicembre 2011 le istituzioni no profit attive in Italia erano oltre 300 mila con un incremento di quasi un terzo in più rispetto all’ultima rilevazione del 2001. Rilevante anche l’apporto di risorse umane impegnate: le istituzioni no profit contano infatti sul contributo lavorativo di 681 mila dipendenti, 271 mila lavoratori esterni e 5 mila lavoratori temporanei. Sono 4,7 milioni i volontari, quasi il 44% in più rispetto a dieci anni fa. L’Istat ci racconta che circa il 18% delle istituzioni del terzo settore piemontesi ha sede nella provincia di Cuneo: 4.500 enti, 6.500 dipendenti e oltre 73.000 volontari. Tutto bene quindi? Non esattamente. Al netto della facile retorica a cui i dati potrebbero indurre, si è ben distanti dall’affermazione del concetto di sussidiarietà tra lo Stato e le organizzazioni della cittadinanza attiva; in moltissimi casi si è trattato di un’esternalizzazione quasi brutale dei servizi di pubblica utilità. Esternalizzazione brutale perché non viene accompagnata né da sperimentazioni adeguate, né da un credito capace di accompagnarne la crescita (anzi, il settore vanta crediti dalla Pubblica amministrazione per circa 7 miliardi), né sostenuto da finanziamenti pubblici che in sei anni si sono ridotti del 78%. È sotto gli occhi di tutti che l’Italia paga deficit di innovazione in molti ambiti della vita pubblica; anche il terzo settore paga per questi ritardi e nonostante tutto continua a tener botta con l’abnegazione e la tenacia delle persone che vi sono impegnate; ma diventa sempre più urgente cambiare qualcosa degli assetti istituzionali che lo regolano. Se qualcosa non cambia, morirà o sarà snaturato per sempre.  

Alessandro Prandi, Torino  

Non si deve scambiare la sussidiarietà con la supplenza. Il rischio è che le aziende no profit diventino finte imprese che si sostituiscono a minor costo alle imprese vere. Lo ha ribadito a un recente convegno Gian Paolo Gualaccini, coordinatore dell’Osservatorio sull’economia sociale del Cnel. C’è dunque bisogno sia di controlli che di responsabilità da parte di queste imprese per non snaturare il loro ruolo. E c’è bisogno di regole chiare da parte dello Stato, che comunque non facciano aumentare la burocrazia. Soprattutto è da auspicare una collaborazione tra le diverse tipologie di imprese. Come ha detto Gianni Bottalico, presidente delle Acli, «l’accresciuto ruolo economico e sociale del terzo settore deve essere di stimolo a tutta l’economia e la finanza a considerare il profitto come mezzo per finalità di umanizzazione del mercato e della società». Queste tematiche sono state affrontate in maniera efficace nell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate. Prima di tutto ribadisce l’importanza delle imprese no profit. «Accanto all’impresa privata orientata al profitto », scriveva il Pontefice emerito, «e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia». Davvero sentiamo sempre più il bisogno di un’economia e di un mercato più “civile”! Benedetto XVI segnalava anche la presenza di un’ampia area intermedia tra profit e no profit, costituita da imprese tradizionali che sottoscrivono patti di aiuto ai Paesi arretrati; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondodell’economia civile e di comunione. E così concludeva: «È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale».

Banner Gazzetta d'Alba