Migranti film festival: a Pollenzo si cerca una via di inclusione

Migranti film festival: a Pollenzo si cerca una via di inclusione

INTERVISTA Tra volti, racconti, culture e sapori, per tre giorni a Pollenzo si sono superati confini geografici e mentali. Si è appena conclusa la prima edizione del Migranti film festival, ideato e organizzato dall’Università di scienze gastronomiche, in collaborazione con Slow Food e il Comune. Sei lungometraggi e otto cortometraggi internazionali, proiettati al calar del sole sul prato dell’Agenzia. Una giuria di personaggi, da Lella Costa a Gianni Amelio, da Giorgio Diritti a Jacopo Fo. E tanti momenti all’insegna dell’incontro, per cercare di comprendere la realtà dei migranti e andare oltre ai luoghi comuni.

Così mentre Carlo Petrini e Luca Mercalli discutevano sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, nel cortile dell’ateneo squadre multiculturali si sfidavano a pallavolo e altri ragazzi suonavano gli strumenti tipici del loro Paese.

Nel frattempo, nel Migrant speaker’s corner, giovani profughi si raccontavano: dalle guerre che dilaniano il loro Paese al lungo viaggio per raggiungere l’Italia, dove sperano di potersi costruire un futuro. A dirigere questo festival dalle molte sfaccettature è stato Dario Leone, regista braidese e coordinatore del laboratorio di cinema dell’Università di Pollenzo.

Leone, da dove è nata l’idea del festival?
«Da sempre l’Università di scienze gastronomiche dà molta importanza ai viaggi esperienziali, grazie ai quali gli studenti possono incontrare persone che vivono in contesti diversi dal loro e scoprirne le culture. A partire dal linguaggio cinematografico, che fa parte della nostra didattica, è nata l’idea di proporre un festival incentrato sui racconti dei migranti: tutte quelle persone costrette, a causa della guerra o del clima, ad abbandonare il loro Paese d’origine. Gli studenti si sono attivati da subito, ma anche il presidente Carlo Petrini, che ha creduto nel progetto e ha coinvolto i tanti personaggi della giuria».

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Un festival cinematografico, ma anche un crocevia di sapori e di esperienze.
«Ho scelto le opere in concorso sulla base di un criterio ideale: far cambiare il punto di vista dello spettatore sulla realtà dei migranti. Ma anche la gastronomia è stata scelta come chiave di lettura e metafora: basti pensare che se in Italia non fosse arrivato il pomodoro, la nostra tradizione culinaria non sarebbe così ricca. E poi abbiamo creato occasioni d’incontro, facendo dialogare in modo informale studenti, comunità di migranti, cooperative sociali, istituzioni e cittadini. Obiettivo? Confrontarsi, riflettere sulla nostra realtà e ridare un significato al termine “accoglienza”».

Dopo questi tre giorni di festival, quale messaggio parte da Pollenzo?
«Solo attraverso la conoscenza reciproca si possono superare i problemi legati all’immigrazione, facendo diventare la diversità una ricchezza. E poi è necessario aprire gli occhi sui tanti risvolti della questione: i migranti di oggi sono tanto diversi dagli italiani che si spostarono da Sud a Nord o sono partiti per l’America? Anche noi siamo un popolo di migranti, all’estero siamo 62 milioni, qui solo 60. Durante questi tre giorni, non pensiamo di aver trovato soluzioni, ma di aver tracciato una direzione: quella dell’inclusione».

Francesca Pinaffo

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