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Per Manzoni la peste si vince con l’umanità

Per Manzoni la peste  si vince con l’umanità

STORIA / 4 A Milano tra il 1630 e il 1631 esplose una terribile epidemia di peste che si diffuse nella parte settentrionale della Penisola portata forse dagli stranieri, in quel caso probabilmente lanzichenecchi – i mercenari tedeschi al servizio dell’imperatore – e poi tenuta viva dai terribili untori, così come la superstizione della gente portava a credere. Anche allora sospetti, ricerca del paziente zero e panico sono i veri protagonisti di quella epidemia.

Manzoni, nel trentaduesimo capitolo dei Promessi sposi così racconta: «L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. “E mentre”, dice il Ripamonti, “i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio”».

Parole attualissime, che sembrano descrivere la situazione odierna, lette su un quotidiano nazionale comprato ieri. Nei capitoli che Manzoni dedica alla peste (XXXI e XXXII), troviamo tutta la confusione mediatica che stiamo vivendo: la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria.

Le malattie non si possono fermare con la costruzione di muri e con la facilità di movimento con cui viaggiamo nel mondo si diffondono con una rapidità maggiore rispetto al passato. Questo è un dato di fatto e non si può fare nulla per evitarlo, ma il rischio più grande, in vicende del genere, come ce lo insegna anche il Manzoni, è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile. L’istinto atavico quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare a ogni nostro simile come a una minaccia, come a un potenziale aggressore. Fermiamoci un attimo a riflettere e impegniamoci a preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità. Solo così la peste non avrà l’ultima parola.

c.w.

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