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Avevamo proposto la decrescita felice, adesso ci tocca assistere e dover subire quella infelice

Avevamo proposto la decrescita felice, adesso ci tocca assistere e dover subire quella infelice

LETTERA AL GIORNALE Egregio direttore, quando si verifica qualcosa di grave, la cosa che più mi disturba è sentir affermare da qualche saputello: «Io l’avevo detto». Nonostante ciò, sul disastro del coronavirus, la parte del saputello la faccio io e chiedo scusa se irriterò qualcuno.
Non che avessi previsto il virus, ma quando, nel 2009 la lista Alba città per vivere, di cui faccio parte, ha inserito nel programma la “decrescita felice” è perché eravamo convinti che un’economia fondata sullo sviluppo illimitato avrebbe causato dei disastri. L’aggressione del coronavirus lo dimostra almeno in due aspetti: 1) l’ambiente si difende dalle continue aggressioni dell’uomo; 2) le risorse distratte ai bisogni fondamentali (sanità, istruzione, cultura, povertà sociale) per essere destinate all’effimero, ci rendono vulnerabili nelle emergenze.

Fummo considerati, allora, dei pauperisti senza volontà di impegno per conquistare spazio sul mercato, dei sempliciotti senza voglia di lottare. Rispondemmo sostenendo che: «Se non felice, sarà infelice ma decrescita sarà». Eravamo consapevoli che la politica economica non può essere dettata da un’Amministrazione comunale, ma volevamo che in qualche modo giungesse dalla base la richiesta di cambiamento. Proprio in quel tempo, con la crisi finanziaria del 2008, la decrescita infelice si scatenò sulle masse dei già poveri. I finanzieri riuscirono a raddrizzarla un pochino, mentre alle grida di allarme sui disastri ambientali si è continuato a far orecchie da mercante (gli Usa hanno rinnegato gli accordi di Parigi). L’avevamo detto ed ecco ora il coronavirus presentarsi, in modo più o meno simultaneo in tutto il mondo, per dirci che l’infelicità può essere globale e che, se la vogliamo affrontare, dobbiamo farlo tutti insieme.

In questi giorni abbiamo sentito interventi bellissimi, profondi, di scienziati, intellettuali, capi religiosi. Tutti richiamano a questa unità di intenti. I politici sono presi dall’emergenza e si limitano agli auspici, mentre i finanzieri, in qualche stanza oscura, staranno studiando come muovere i capitali per guadagnare ancor di più a spese dei piccoli risparmiatori e dei debiti pubblici.

Per farcela, dovremo ricominciare con la voglia di cambiare in profondità, mettendo in discussione questo sistema economico imperniato sulla crescita del Pil. Bisognerà cambiare il modo di calcolarlo il Pil, basandolo sulla solidarietà, sul risparmio sudato, sul lavoro agricolo, produttivo, artigianale, commerciale, cancellando la rendita finanziaria.

Com’è possibile un cambiamento del genere? Non so dirlo, ma bisogna volerlo senza timori reverenziali, magari prevedendo, per legge, che le necessità primarie (fame, casa, salute, istruzione) siano garantite a ogni persona e chi ha di più deve contribuire per chi ha meno. Oggi la tassazione non lo garantisce. Sento già l’obiezione: faremo crescere generazioni di fannulloni! Non accadrà se chi ha responsabilità saprà dare il buon esempio, dimostrando che si può essere felici senza essere ricchi e si va più d’accordo se non si posseggono troppe proprietà. Se non sapremo farlo, la decrescita infelice continuerà la sua strada.

Franco Foglino, Alba

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