L’Unione europea è giunta a un passaggio decisivo

C’erano una volta la Svezia e il Parlamento europeo 1

Per l’Unione europea sono giorni che ne segneranno in positivo la storia o ne decreteranno la fine, dopo quasi settant’anni di una straordinaria avventura di pace e sviluppo.

Sono note le molte storie delle persone decedute e i rischi che ancora molti correranno: la pandemia sembra, almeno lei, applicare criteri di equa distribuzione delle vittime nei diversi Paesi, come debbono rassegnarsi ad ammettere quei responsabili politici, nei Paesi del Nord Europa in particolare, che si erano creduti al riparo dal pericolo. Sembra però che molti non abbiano ancora abbastanza capito quanta umanità si sta spegnendo dietro questi numeri, sensibili soltanto agli indicatori in caduta libera dell’economia, ma anche qui con sguardo miope all’immediato e al proprio Paese.

Siamo alla vigilia di decisioni importanti per il futuro dell’Unione europea quando, il 23 aprile, si riuniranno i capi di Stato e di governo: che decidano o meno, perché anche non decidere sarà una forma di decisione che segnerà la storia di questo nostro continente.

La settimana scorsa i ministri finanziari sono tornati a riunirsi sulla base di un mandato del Consiglio europeo di fine marzo che non consentiva loro grandi margini di manovra, vincolati nelle loro proposte agli strumenti d’intervento consentiti dalle regole attuali dell’Ue. Un vincolo che implicitamente escludeva lo strumento degli eurobond, rifiutato dai Paesi rigoristi del Nord, Germania e Olanda in testa.

In queste condizioni, le proposte di intervento presentate dai ministri finanziari alla prossima riunione dei capi di Stato e di governo non potevano andare molto lontano, ma qualche passo importante è stato fatto, fondamentalmente su due piste: dilatazione degli interventi della Banca europea degli investimenti, dotata di una potenza di fuoco non indifferente per alimentare finanziamenti alle imprese e possibilità di ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), il cosiddetto fondo salva-stati, attivabile con vincoli molto alleggeriti e messo a disposizione di tutti i Paesi dell’eurozona.

Si tratta di due piste importanti che, unite ai massicci interventi della Banca centrale europea, al piano da 100 miliardi della Commissione Ue in favore di una “cassa integrazione” comunitaria e alla messa a disposizione delle residue risorse del bilancio Ue 2020 (circa 40 miliardi di euro, 12 per l’Italia), potrebbero dare una prima rilevante risposta alla crisi economica in corso. Senza dimenticare però le resistenze dell’Italia all’uso del Mes, anche per dissensi interni alla maggioranza, vista l’opposizione allo strumento da parte in particolare dei Cinque stelle.

C’erano una volta la Svezia e il Parlamento europeo
Franco Chittolina, sociologo, ha lavorato per 25 anni nelle istituzioni europee

Manca ancora all’appello la pista degli eurobond, buoni del tesoro sovranazionali, sottoscritti con una garanzia condivisa da tutti i Paesi Ue, attualmente bloccati da parte dei Paesi rigoristi del nord, Germania e Olanda in testa. Agli occhi di molti – i Paesi meridionali Ue, ma non solo – dovrebbe essere questo lo strumento che meglio tradurrebbe una solidarietà comunitaria sostanziale, ma al momento la loro creazione sembra ancora lontana. Questa potrebbe essere avviata da un “Fondo per la ripresa”, proposto dalla Francia con il sostegno dell’Italia e di una dozzina di altri Paesi Ue, da attivare in tempi brevi, probabilmente con il coinvolgimento del bilancio comunitario 2021-2027, sul quale accordarsi nel corso dell’estate. Resta da negoziarne le condizioni, che i Paesi del sud puntano ad avvicinare a qualcosa che assomiglierebbe molto agli eurobond fin qui rifiutati.

Se anche questo nuovo potenziale strumento finanziario venisse attivato, la potenza di fuoco a oggi dell’Ue per rispondere alla crisi potrebbe contare su circa mille miliardi di euro, con la possibilità di altri 500 miliardi aggiuntivi in carico al “Fondo per la ripresa” raggiungendo la soglia, ritenuta necessaria dalla Commissione, di 1.500 miliardi di euro.

I negoziati proseguono e non si annuncia facile una conclusione positiva che dia all’Unione europea nuovo slancio e all’Italia un contributo importante per la ripresa, senza dimenticare che il nostro Paese dovrà metterci molto di suo: fin da subito per completare l’indispensabile soccorso europeo e, nei mesi e anni che seguiranno, per rientrare da un debito pubblico già oggi molto pesante e che verrà ulteriormente incrementato nel corso di questa crisi, tenuto conto che la maggior parte degli interventi citati sono prestiti. Un programma futuro di “lacrime e sangue” che è doveroso non nascondere ai cittadini e contribuenti – evasori fiscali compresi – d’Italia.

Franco Chittolina

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