A Murazzano la solidarietà non ha confini

A Murazzano la solidarietà non ha confini 2

MURAZZANO  Marino Pianezze è il responsabile della cooperativa Alpi del mare, fondata a Mondovì nel 2012 e attiva nell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo. L’organizzazione gestisce alcune strutture in provincia di Cuneo, tra cui quella di Murazzano. Con l’insorgere dell’emergenza coronavirus, i ragazzi ospiti nel paese langarolo hanno avviato una produzione artigianale di mascherine per la protezione individuale.

Pianezze, come è sorta questa iniziativa?
«Nei loro Paesi d’origine, i nostri ospiti hanno convissuto a stretto contatto con terribili epidemie, quali il colera e l’ebola. Conoscendo più di noi i rischi che simili eventi comportano, fin dall’insorgere dei primi casi hanno rispettato le misure di isolamento sociale. Dato che i vari programmi televisivi stavano riportando notizie riguardanti la penuria di mascherine, i ragazzi ci hanno chiesto se avrebbero potuto dare una mano: alcuni di loro, infatti, sono dei sarti. Ci siamo così prodigati per procurare le macchine da cucire, mentre un’azienda di Lodi ci ha gentilmente fornito gli elastici. Il tessuto, invece, è stato donato dagli ambulanti della zona che, pur non potendo in questo momento lavorare, hanno voluto sentirsi solidali».

A chi sono state distribuite le mascherine?
«Nei limiti delle nostre capacità produttive, a tutti coloro che le hanno richieste o le richiederanno: enti pubblici privati e singoli cittadini. Al Comune di Belvedere Langhe abbiamo effettuato una prima consegna di cento esemplari, ma ci stiamo già attivando per una seconda donazione. Abbiamo rifornito alcuni ricoveri per anziani e farmacie del Monregalese e delle Langhe. Per il momento i nostri ospiti ne hanno cucite circa diecimila, ma sicuramente la produzione aumenterà. Poter aiutare molte persone li rende veramente felici, così come il fatto che il loro lavoro venga apprezzato».

Quante persone sono ospitate a Murazzano? Qual è la loro provenienza?
«Sono una ventina e provengono da Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal, Ghana e Gambia. I flussi migratori si sono ridotti rispetto a qualche anno fa e, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, i richiedenti asilo escono dalle nostre strutture».

Alla luce della pandemia in atto, hanno mostrato preoccupazione per i familiari rimasti nel loro paese d’origine?
«Certamente. Nella fase iniziale hanno manifestato delle forti preoccupazioni sia per sé stessi e sia per i loro cari. Una volta appurato che la situazione non era stata presa sottogamba dalle loro famiglie e dai politici locali, si sono quantomeno rasserenati. Il contatto con i familiari è costante, aiutati in questo dai moderni dispositivi informatici».

Ci sono stati problemi particolari relativi alla gestione dell’emergenza nelle vostre strutture?
«Non più del normale, grazie soprattutto al grande senso di responsabilità dei ragazzi. Abbiamo fornito loro l’alcol disinfettante e abbiamo sospeso tutte le attività che comportavano il contatto diretto con persone: corsi di italiano, visite mediche e attività di assistenza giuridica. I primi giorni, in seguito alla corsa agli approvvigionamenti nei supermercati, abbiamo faticato più del solito per rifornirci di generi alimentari. Ad esempio, nelle nostre strutture ogni giorno abbiamo bisogno di 70 chili di riso. Da questo punto di vista, però, la situazione sembra essersi stabilizzata. A oggi, fortunatamente, non abbiamo avuto nessun contagiato, neanche tra i quaranta operatori che lavorano per la nostra cooperativa».

Quali sono le difficoltà che gli ospiti incontrano nella vita lavorativa?
«Purtroppo, tutte le attività al di fuori della struttura sono sospese, anche perché l’eventualità di un focolaio interno avrebbe comportato un rischio enorme. L’attività di produzione di mascherine è importante e utile anche per colmare parzialmente questo vuoto. I ragazzi lavorano soprattutto nel settore agricolo e, a differenza di altre realtà, non si sono mai imbattuti in casi di sfruttamento».

Davide Barile

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