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Storia: referendum ’46, Langhe e Roero fedelissimi al re

Storia: referendum ’46, Langhe e Roero fedelissimi al re 1

STORIA Il 2 giugno 1946 gli italiani, comprese per la prima volta in un’elezione politica le donne, sceglievano i propri rappresentanti per l’Assemblea costituente e decidevano se il nuovo Stato dovesse rimanere una monarchia o diventare una repubblica. Prevalse la seconda ipotesi con 12.718.641 voti (il 54,27 per cento) contro 10.718.502.

Da Roma in su a decidere le sorti del referendum fu la svolta politica impressa dai venti mesi di lotta partigiana, che mise in evidenza non solo i passati cedimenti e le connivenze del re con il fascismo, ma anche l’inettitudine e la viltà palesate di fronte all’invasione tedesca. In due province del Nord tuttavia il voto repubblicano non vinse: ad Asti, per un soffio, e nettamente a Cuneo: 147.481 suffragi, il 43,85 per cento, contro 188.876. Eppure nel capoluogo e nelle vallate alpine la monarchia perse. Si rifece nei Comuni di pianura, nel Doglianese e soprattutto nell’Albese. Nelle Langhe e nel Roero il voto sabaudo superò il 60 per cento dei consensi, con punte dell’80 a Sinio, Bossolasco e Santo Stefano Roero. La repubblica andò oltre il cinquanta per cento, a volte di poco, solo a Cossano, Baldissero, Santa Vittoria, Belvedere e Somano. In Alba si fermò al 33,20, a Bra al 44.

Perché tanta diversità di voto fra la montagna, compresi molti fondovalle, e il resto della provincia? Intanto dalla valle Po alla Vermenagna avevano operato per venti mesi brigate Garibaldi, Giustizia e libertà e Matteotti, formazioni che si ispiravano a partiti (Pci, Partito d’azione, Psi) decisamente repubblicani. Gli autonomi di Enrico Martini Mauri, egemoni nell’Albese, nel Braidese e in parte del Monregalese, erano invece badogliani, cioè monarchici.

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Luigi Einaudi ad Alba nel 1949.

Tra i partiti antifascisti rimanevano legati a casa Savoia i liberali, che ad Alba valevano un otto-nove per cento e a Bra tra il sei e il sette, magari illuminati dalla fede british di Luigi Einaudi in una monarchia costituzionale libera dalle miserie comportamentali di Vittorio Emanuele III, e il Partito dei contadini dell’astigiano Alessandro Scotti e dell’albese Urbano Prunotto, che, se in città pesava per il dieci per cento, in campagna saliva al 20-30, insidiando il primo posto alla Dc.
Il voto contadinista spiega anche la sconfitta della repubblica in provincia di Asti, nonostante il successo a Canelli, Nizza e soprattutto nel capoluogo, dove in primavera il sindaco uscente del Cln, l’avvocato comunista Felice Platone, aveva condotto le sinistre al successo nelle amministrative di primavera e aveva poi ricevuto una valanga di preferenze per la Costituente.

Il cuore del problema era la Democrazia cristiana, primo partito nelle elezioni amministrative di marzo-aprile e ora all’Assemblea costituente, il cui consenso si aggirava sul 35-40 per cento nell’arco alpino e pedemontano, ma sfiorava o superava la metà dei consensi nel Braidese e nell’Albese. Per decidere il proprio orientamento la Dc nazionale aveva indetto un sondaggio fra gli iscritti. Avevano risposto in 836.812: il 60 per cento dei votanti si era espresso per la repubblica, il 17 per la monarchia, il 28 si era definito agnostico. Ma, soprattutto, quasi 700mila avevano preferito non esporsi. C’era il rischio di una spaccatura irreparabile: così al Congresso straordinario del 25- 27 aprile 1946 Alcide De Gasperi si inchinò alla realpolitik di Attilio Piccioni e Guido Gonella, per i quali «il partito democristiano si sottrae a ogni preventiva definizione repubblicana o monarchica, conservando il privilegio di una neutralità di fronte al Paese, all’occupante, e allo sviluppo degli avvenimenti, arbitro di dire l’ultima parola».

Livio Berardo

La prosa «raffinata e persuasiva» del vescovo Luigi Maria Grassi e le idee di Luigi Einaudi

Nel caso di Alba, supponendo che la prima fonte di voti monarchici siano stati i 1.087 elettori contadinisti e gli 867 liberali, per giungere al totale di 6.709, occorre pensare che approssimativamente 4.755 elettori democristiani su 5.013 abbiano seguito l’invito di Piccioni a «evitare avventure di dubbio avvenire». A Bra la repubblica, pur soccombendo, ottiene un 11% in più di consensi: ciò dipende dal maggior peso socialista e dall’inconsistente presenza del Partito dei contadini, mentre il voto bianco per la monarchia, soprattutto nelle frazioni di Pollenzo e Pocapaglia, che rientrano nella diocesi albese, è ancora più ampio. Tali scelte non contraddicevano le indicazioni della Chiesa. Anzi, questa non si era ufficialmente «schierata per una forma di governo, dando la più ampia libertà ai fedeli di scegliere secondo la loro coscienza», argomentando che contava non «la forma, ma la scelta degli uomini che formeranno il Governo»: di qui l’esortazione «perché si desse il voto a quelle liste che basavano il loro programma politico sui principi immortali del Vangelo».

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Il vescovo Luigi Maria Grassi (Mondovì 1887 – Alba 1948).

In preparazione alla Pasqua 1946 i vescovi pubblicarono delle lettere quaresimali, in cui si proclamava il dovere per i cristiani del voto e si esaminava il momento storico e politico. Alcune analisi erano apocalittiche. Per monsignor Giacomo Rosso, vescovo di Cuneo, la guerra mondiale e la conseguente miseria erano opera del diavolo, la cui azione era cominciata con lo Scisma d’oriente e la riforma di Lutero, era proseguita con la Rivoluzione francese e quella russa: repubblica e comunismo erano l’ultima manifestazione di «una civiltà del peccato», a cui bisognava contrapporre il ritorno all’ordine e all’autorità. Era una visione medievale della storia, che creò imbarazzo in settori del clero (fu ignorata dal settimanale diocesano, La guida) e soprattutto non ebbe presa fra gli elettori.

Ben altro respiro mostrò ad Alba la pastorale di monsignor Luigi Maria Grassi. Ampia, ricca di riferimenti dottrinali e storici, evitava di demonizzare la modernità, anzi riconosceva i giusti motivi di protesta alla base delle rivoluzioni, sia pure poi degenerate in dittature. In particolare vedeva nell’esempio francese le premesse del nostro Risorgimento, da cui era nato lo Statuto, cioè la monarchia costituzionale.

Nella carta carloalbertina, infatti, avevano trovato posto le libertà religiose, non solo dei cattolici, e quelle politiche. Non a caso il fascismo l’aveva calpestata. L’epistola terminava con un implicito suggerimento a recuperare lo Statuto come modello per la futura Costituzione. Erano, pur senza esplicite professioni di voto, le stesse conclusioni di Luigi Einaudi. Credo di non sbagliare, affermando che buona parte del successo monarchico nell’Albese vada assegnato all’eloquenza raffinata e persuasiva di monsignor Grassi, tradotta in forme semplici nelle prediche dei parroci.

Il presule poi godeva di un alto prestigio conquistato nel difendere la città e il territorio nei venti mesi di occupazione nazifascista e poteva contare su un clero che, in quel tempo, rappresentava «l’unica classe colta, dirigente, che avesse un contatto continuo con il popolo».

l.b.

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