Rapporto italiani nel Mondo: 5,5 milioni vivono fuori dal Paese

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CHI SE NE VA Giovane, con un livello medio-alto d’istruzione e di provenienza provinciale: è questo il profilo degli italiani che scelgono di lasciare il Belpaese, come emerge dalle pagine del quindicesimo rapporto Italiani nel mondo, redatto dalla fondazione Migrantes. Il documento è stato presentato lo scorso 27 ottobre: moderatrice dell’incontro Web la sociologa e ricercatrice Delfina Licata, fra gli estensori del rapporto, che ha illustrato i punti salienti del documento.

«Dobbiamo per prima cosa sgombrare il campo da alcuni errori diffusi, quando si parla di chi si sposta all’estero», ha spiegato Licata, proseguendo: «Sono le regioni del Nord, Lombardia e Veneto in particolare, i territori dai quali proviene la maggior parte dei giovani emigrati nell’ultimo anno». E ha aggiunto: «Il disagio sociale non si gioca più, oggi, fra Nord e Sud Italia, ma fra città e aree esterne, provinciali, dove sono maggiori i flussi degli espatri. Anche l’immagine della “fuga di cervelli” va rivista: a lasciare l’Italia sono quasi sempre giovani con un livello medio-alto d’istruzione, alla ricerca di lavori generici».

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Quasi due milioni di persone in più fuori dal Paese in 15 anni: i dati sull’andamento delle partenze, calcolati sulla base dell’iscrizione all’Aire (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), documentano un balzo dai 3,6 milioni del 2006 ai circa 5 e mezzo del 2020, con una netta prevalenza di under 34 (il 41% del totale) ma anche di minori, al seguito delle famiglie.

Il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti –per la cronaca, nei giorni successivi l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve è stato trovato positivo al coronavirus – ha richiamato l’attenzione su un concetto: «Fermare la mobilità umana è utopia; governarla è la chiave per prevenire i disagi sociali. A chi parte dev’essere garantito il diritto a tornare».

E sul documento il cardinale Bassetti ha affermato: «Il rapporto evidenzia alcune criticità, a partire dalla mancanza di un sistema anagrafico che registri sistematicamente chi se ne va (non tutti gli italiani all’estero chiedono l’iscrizione all’Aire, nda). Inoltre, il ritorno alla solidarietà è la via maestra per evitare lo svuotamento dei territori. Di fronte a un’Italia sempre meno giovane ed entusiasta, dobbiamo impegnarci per rammendare il tessuto sociale e rinnovare il legame fra le generazioni».
Ai lavori ha preso parte anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Da 15 anni il rapporto Italiani nel mondo è una bussola che ci permette di riflettere sulle ragioni dell’espatrio. Ora dobbiamo lavorare per tradurre le cifre riportate in obiettivi politici», ha detto. «L’emigrazione è stata importante nella storia d’Italia: ha permesso la riduzione della pressione demografica e le rimesse hanno contribuito all’economia nazionale. Ora bisogna creare le condizioni per rendere possibile un ritorno in patria nel medio periodo». In 15 anni l’emigrazione italiana è cresciuta del 76%: nel complesso, il 73% degli italiani espatriati ha scelto di rimanere in Europa; accanto alle destinazioni di vecchia data, su tutte la Gran Bretagna, si affermano i nuovi Paesi, come l’Olanda.

Rapporto italiani nel Mondo: 5,5 milioni vivono fuori dal Paese

Di pensioni e previdenza sociale ha invece parlato Pasquale Tridico, presidente dell’Inps: «Siamo stati un Paese migrante: lo vediamo anche dalle pensioni estere pagate in Italia. Ammontano a 3 miliardi e mezzo di euro gli assegni che arrivano da Germania, Francia, Svizzera e Canada, contro i 446 milioni che l’Inps paga oggi in 160 Paesi del mondo. In tutto il 2,4% delle emissioni totali».
Le finalità della ricerca sono state al centro dell’indirizzo scelto da monsignor Guerino di Tora, presidente della fondazione Migrantes: «L’Italia sta tornando a essere uno Stato da cui si parte, dopo più di mezzo secolo. I numeri sono però difficili da seguire, poiché spesso si perdono oltre il confine: dobbiamo cercare di camminare accanto ai migranti per seguirli fino alle loro destinazioni».

Davide Gallesio

Deborah, da 2 anni in Nuova Zelanda: sogno di vivere disegnando fumetti

“A inizio 2019 mi sono trasferita in Nuova Zelanda: ad Alba lavoravo come cameriera e tenevo ripetizioni. Non riuscivo a ricavarmi uno spazio mio nel mondo». Lo spiega Deborah, una ragazza di 29 anni, albese.

«A lungo ho pensato fosse colpa mia, che non avessi sufficienti capacità. La verità era che arrivavo da una famiglia a basso reddito, senza alcuna connessione sociale importante. Perciò non sono riuscita a dare voce alle mie passioni. Così, alla fine, ho deciso di partire. Ma non era la precarietà lavorativa a motivarmi a fare le valigie». Deborah ha due genitori che le vogliono molto bene e un fratello che ora studia all’università.

L’interesse per le vicende geopolitiche e gli scenari internazionali l’ha sempre aiutata a leggere il mondo. «L’anno scorso mi rendevo conto che in Europa stava per succedere qualcosa. Non credo affatto si tratti di intuizioni geniali. Semplicemente, mi informo da alcune fonti mediatiche alternative, da siti Internet, da giornali e da blog di controinformazione. Si paventa da tempo che l’Europa sia al centro di uno sconvolgimento sotto l’influenza degli interessi delle grandi nazioni del mondo, delle multinazionali, di enormi gruppi di potere. Ci sono, poi, i temi delle migrazioni provenienti dall’Africa, della Brexit, della rinascita dei sovranismi e dei movimenti dell’estrema destra, con il cambiamento climatico e le nuove tecnologie. Tutto questo si sta agitando da tempo dietro la cortina della realtà».

La giovane spiega che, sebbene in Nuova Zelanda la situazione pandemica risulti oggi praticamente sotto controllo e il coronavirus non esista quasi, la preoccupazione è aumentata. «Ma almeno qui posso trovare un lavoro; mi sento libera di esplorare e sfruttare al meglio le mie potenzialità e capacità. Non vivo la sensazione di dovere combattere sempre, competere con gli altri per avere il mio spazio. Se dovessi esprimere un desiderio, vorrei potere rimanere in questo Paese per tanti anni. Vorrei dedicarmi alla mia passione, quella per i fumetti, e provare a vivere grazie all’arte. Non penso che i miei coetanei rimasti in Italia siano più sfortunati di me. In qualche modo li considero più coraggiosi. Se sapranno resistere a questo oscuro periodo storico, credo ne usciranno fuori più forti che mai».

Roberto Aria

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