Crescita e lavoro: due curve che divergono

I legami frutto della solidarietà sono un valido vaccino sociale

ECONOMIA Molto si è parlato in questi giorni della forte crescita prevista in Italia in questo 2021: un aumento attorno al 6%, accompagnato da una discesa del deficit al 9,4% e del debito al 153,5%. È quanto contenuto nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef) reso pubblico nei giorni scorsi dal Governo: numeri buoni per la crescita, ma ancora inquietanti per lo stato delle finanze pubbliche che annunciano seri problemi per un futuro rientro a valori sopportabili, se non si vogliono condannare le future generazioni a pagare i nostri debiti per una vita.

Pochi giorni dopo la presentazione del Nadef, l’Istat ha pubblicato il report mensile sullo stato dell’occupazione in Italia ad agosto e qui i numeri sono meno buoni rispetto a quelli della crescita.

Degli 820mila posti lavoro bruciati dalla pandemia ne sono stati recuperati 430mila, prevalentemente nel corso della primavera, mentre a luglio ed agosto ne sono stati persi 156mila, un prezzo che hanno pagato soprattutto i lavoratori autonomi e le donne. Si aggiunga a questo che i nuovi posti di lavoro sono all’85% a tempo determinato, con il 72% con contratti di durata inferiore ai sei mesi e addirittura con metà di questi inferiori ai 30 giorni. Tutto questo accade mentre sale la rapidamente la curva dei prezzi con l’inflazione in Italia al 3% e non consola che in Germania sia già al 4,1%: un livello di guardia che potrebbe allarmare la Banca centrale europea e indurla a raffreddare il suo sostegno finanziario.

Non sorprende purtroppo che le due curve, quelle della crescita e dell’occupazione, divergano almeno per quanto riguarda la coincidenza temporale tra i due indicatori, il primo nettamente in anticipo sulla creazione di lavoro, che non necessariamente corrisponde a un’occupazione “decente” come richiesto dall’obiettivo 8 dell’Onu per lo “sviluppo sostenibile” (denominato appunto “Lavoro decente e crescita economica”).

Questa divergenza delle due curve è stata aggravata dalla crisi pandemica che ha terremotato il mercato del lavoro, in particolare accelerando il ricorso a robot con la prospettiva di investire ancora più intensamente su questi strumenti di lavoro, una parziale e ancora iniziale conseguenza della transizione digitale in corso. Valga come previsione quanto avvenuto nel settore della logistica, fortemente sollecitato nel periodo di crisi e dove a livello globale saranno investiti 36 miliardi di dollari in automazione, il 20% in più rispetto al 2020, giustificati da una mancanza di manodopera umana.

E qui viene al pettine un altro dei nodi del mercato del lavoro, quello del mancato incontro tra offerta e domanda di lavoro con una situazione di lavoratori senza lavoro e di lavoro senza lavoratori che l’accelerazione digitale e le ricadute della transizione ecologica rischiano di aggravare.

Dirà qualcuno che a tutto questo verrà in soccorso il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr) con i suoi circa 225 miliardi di euro di dotazione, 191 dei quali in provenienza da risorse europee. Si tratta ad oggi di una speranza fragile, sia per la modesta parte di questa dotazione destinata al capitolo 5 del Pnrr “Inclusione e coesione” di 6.660 miliardi e sia, soprattutto, per il debole rapporto tra gli investimenti del Pnrr e la creazione di posti di lavoro, stimati in aumento di 750.000 unità di qui al 2026.

A questo proposito la Commissione europea ha stimato che i “Piani nazionali” nei Paesi Ue registrano forti differenziali nel rapporto investimenti e posti di lavoro. Per un milione di euro la Germania crea 4,8 posti di lavoro, la Spagna 3,6, il Portogallo 2,9, la Grecia 2,0 e l’Italia solo 1,3.

Numeri che interrogano sulla dimensione sociale del nostro PNRR e sul futuro del lavoro nel nostro Paese, nel quale la disoccupazione continua ad aggirarsi sul 10% della popolazione in età lavorativa.

Franco Chittolina

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